CATANIA – È uscita da qualche giorno per Piemme la biografia romanzata “Nel furor delle tempeste – breve vita di Vincenzo Bellini” di Luigi La Rosa. Presentato per la prima volta a Catania nella splendida cornice del foyer del teatro Massimo, si appresta a un lungo giro di presentazioni per tutta Italia.
Incontriamo l’autore, messinese di origine e parigino di adozione, apolide, come si definisce lui stesso: “L’idea di non potermi muovere mi fa impazzire”, ci dice lo scrittore, che ormai da tanti anni scrive nei bistrot della capitale francese riempiendo di una scrittura elegante e regolare le pagine delle sue Moleskine.
Perché raccontare di Bellini?
“L’ho sentita come una missione. Mi sembrava doveroso restituire a un grande come lui la popolarità che merita, ma soprattutto la sua umanità. Non nascondo di avere avuto un po’ di soggezione a presentarlo nella sua città: sapevo di maneggiare una materia incandescente, ma faceva parte del rischio“.
Un lavoro come questo richiede una preparazione complessa fatta di ricerca e studio
“Mesi e mesi in biblioteca per leggere e studiare biografie e lettere, una gran mole di appunti fino a quando riesco a ricostruire quel mondo e passo alla fase creativa, senza abbandonare del tutto la ricerca”.
Come scegli i tuoi personaggi?
“Non sono io che li scelgo, ma loro che mi cercano. Ben quindici anni fa, proprio a Catania, in una giornata ventosa, mi è volato in faccia un foglio con il ritratto di Bellini. Da allora, molti sono stati i segni che mi hanno spinto a scrivere di lui”.
Come la tua precedente biografia romanzata sull’impressionista Caillebotte, anche questa si apre con un fallimento: il clamoroso fiasco della prima della “Norma” alla Scala di Milano”
“Mi piace raccontare quelli che Zweig chiama ‘momenti fatali’ che occorrono nella vita di tutti. Per le persone eccezionali, essi sono deflagrazioni, cadute che portano poi al trionfo. Il fallimento della prima rappresentazione della ‘Norma’ – probabilmente guidato da una claque ostile che faceva capo a Giovanni Pacini – fu seguito da un trionfo senza eguali“.
Bellini ha molti punti in comune con Caillebotte: entrambi artisti, uomini irrisolti, morti prematuramente. Due vite all’apparenza appaganti e di successo, offuscate dall’ombra dell’infelicità
“Per Bellini l’infelicità è anche un fatto estetico: è tipicamente romantico il topos dell’artista tormentato. Ma mi piace indagare il rapporto fra dolore e genio. L’infelicità porta a scavare dentro sé stessi e a raggiungere una profondità che non è accessibile alle persone comuni. L’artista con le sue opere rielabora il dolore, operando una forma di catarsi attraverso cui crea bellezza e gioia. Come diceva Rilke, l’arte è la prova che la vita non basta e che hai bisogno di ricreare la realtà“.
Hai raccontato un pittore descrivendo le sue tele, con Bellini il compito è ancora più arduo: come si può raccontare un artista e la sua musica attraverso le parole?
“È stata una grande sfida. Ho cercato di visualizzare la sua musica. L’ascolto delle note di Bellini mi ha aiutato a comprenderne lo spirito; per trasmettere le mie sensazioni mi sono avvalso delle immagini che la musica mi ha suscitato. Il processo di immedesimazione è stato totale: ascoltando, ho cercato di immaginare quello che l’artista provava durante la composizione“.
Il Bellini che viene fuori è un uomo irrisolto. La fama lo descrive come un amatore instancabile, invece dal tuo romanzo esce fuori un giovane tormentato, affamato di un amore che non lo appaga mai
“Ho cercato di smentire molte leggende che aleggiavano intorno a lui, anche la sua fama di amante. Era un uomo bellissimo, alto, aggraziato, ossessionato dall’idea dell’amore. Tre le donne per cui provò un sentimento autodistruttivo. Bellini morì desiderando disperatamente l’unica donna che non cedette alla sua fascinazione, la cantante Maria Malibran. Era un uomo che provava i sentimenti in maniera autentica ed estrema: anche la sua facilità alla collera fa parte del quadro“.
Nella descrizione fisica, quanto ti sei rifatto alle descrizioni storiche e quanto ti sei lasciato suggestionare dai ritratti?
“Sicuramente sono importantissimi entrambi. Però quando scrivo guardo all’immagine che si è formata nella mia mente. Per rendere in un romanzo un personaggio storico devi in un certo senso tradire la realtà, altrimenti scriveresti un saggio. Rimbaud diceva che l’artista è un veggente. Ecco, io penso di avere attinto a una dimensione inconscia che fa capo ai sensi e alle emozioni per rendere Bellini“.
Tutti gli scrittori mettono un po’ di sé nei personaggi, specie nel protagonista. Come funziona questo meccanismo con un personaggio già definito dalla storia? E quali sono i tratti comuni fra Luigi La Rosa e Vincenzo Bellini?
“Ho sempre scelto i personaggi quando li ho sentiti simili a me per certi versi. Entrambi abbiamo un forte legame con la Sicilia e con Parigi. Mi riconosco nella sua sensibilità, nella sua inquietudine, nella paura di morire giovane, nell’attesa angosciata di un evento fatale. Ma anche nella volontà di ferro: Bellini era un perfezionista, durissimo con sé stesso e con i suoi collaboratori. Infine, la solitudine è un tratto che sento nelle mie corde: nonostante Vincenzo fosse circondato dai migliori spiriti del secolo, adulato e corteggiato, era sempre solo. È il prezzo che deve pagare l’artista per la sua diversità. Bellini è un esule, che fa la sua fortuna fuori ma si sente ormai estraneo alla sua terra, un senza patria“.
Il prossimo progetto?
“Un progetto metanarrativo: un libro che racconta la Parigi di Proust e che uscirà in autunno”.
Ancora ricerca e ancora Parigi, dunque. Buon lavoro al nostro scrittore.
Articolo a cura di Daniela Ginex