Siciliani senza futuro

Siciliani senza futuro

CATANIA – Se la lingua di un popolo è lo specchio della sua cultura e del suo modo di pensare, e quindi essere, il caso del siciliano è emblematico.

Siamo senza futuro. Incapaci di immaginarlo, ma soprattutto di dirlo, spiegarlo. Non è retorica, ma realtà: il dialetto siciliano, infatti, è privo del tempo futuro. Provate a rendere in dialetto una frase semplice come “domani andrò”, e vi accorgerete di non riuscire a declinare il verbo andare (“iri”) al futuro. Direte, infatti, “dumani vaiu” (domani vado), col verbo al presente e l’avverbio di tempo a indicare il tempo futuro nel quale si svolgerà l’azione.

Perché in Sicilia è tutto un eterno presente, un tempo quasi mitologico. Ben lo sapeva Giuseppe Tomasi di Lampedusa che nel suo capolavoro, nonché capolavoro di sicilianità, “Il Gattopardo” (1958), descrisse quel tempo immobile con una frase diventata celebre: “Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi”. Ora e sempre. La circolarità dell’eterno ritorno, la non linearità della Storia, che è per definizione sviluppo e cambiamento.

È tutto uguale in Sicilia, quasi che non esista speranza di evoluzione. Come sintetizzò un altro celebre figlio di quest’isola amata e commiserata, Leonardo Sciascia, che in un passaggio della lunga intervista concessa a Marcelle Padovani, pubblicata come libro col titolo “La Sicilia come metafora” (1979), disse: “Come volete non essere pessimista in un paese dove il verbo futuro non esiste?”.

Pessimismo o amaro realismo: la linea che separa le due definizioni è labile, spesso l’uno sfocia nell’altro, e viceversa. Lo stesso mix di sentimenti che si ritrova ad affrontare chi da questa terra “scappa” per cercare ciò che qui non è nemmeno previsto dalla propria lingua: il futuro. Quei cervelli in fuga e giovani in cerca di speranza che tanto riempiono d’orgoglio chi qui resta. Che portano alto all’estero il nome di mamma Sicilia, ma che non riescono a cambiarla, a darle il futuro che non contempla.

Chi crede nel futuro della Sicilia? La politica, certo. I proclami al futuro si sprecano, ed è un paradosso, perché i problemi sono adesso, le soluzioni servono ora. Se per i siciliani un futuro non esiste (linguisticamente in primis, “esistenzialmente” in extremis), sentir parlare al futuro politici e politicanti può voler dire ascoltare il nulla. E l’elevato dato percentuale di astenuti che si registra durante le chiamate alle urne dimostra quanta distanza ci sia tra le promesse sbandierate in campagna elettorale e chi le ascolta.

Che splendido paradosso è la Sicilia. Da qui le rivoluzioni partono, ed è qui che si arenano. La capacità unica dei siciliani di adattarsi al cambiamento per adattarlo a se stessi.