Ho adorato alcuni elementi di “Kafka sulla spiaggia” di Murakami, altri mi sono parsi assolutamente inutili, altri infine li ho trovati “disturbanti”. In generale, lo consiglio, soprattutto per farsene un’idea personale e per goderne l’indubbio fascino.
L’onirismo è indubbiamente la cifra di questo romanzo che si sviluppa come un sogno perfettamente strutturato (se non fosse una contraddizione in termini). L’architettura dell’opera presenta un io narrante, ma non unico protagonista, Tamura Kafka, ragazzo di quindici anni scappato di casa, con il suo contraltare (quasi grillo parlante, sguardo visionario con cui Tamura si confronta) del “Corvo”, e l’anziano Nakata, svuotato di ricordi e di conoscenze, la bontà personificata con la curiosa capacità di comunicare coi gatti. Un fil rouge, rosso di sangue, li lega, tanto da farli avvicinare fin quasi a sfiorarsi, attraverso degli incontri con figure di “aiutanti” (oserei definirli come nell’analisi delle fiabe di Propp) fondamentali per la formazione di entrambi, forse per l’accettazione del dolore e di un destino di abbandoni da parte del giovane. Tra questi interessante è Oshima, ermafrodita che muta forma durante il sonno (mi ha ricordato vagamente l’Orlando della Woolf), che àncora Tamura alla vita concreta, ma al contempo lo pone di fronte al bivio di un’esistenza priva di passioni, una sorta di atarassia, che lungi dall’essere felicità, somiglia piuttosto all’incapacità di provare qualunque emozione (rappresentazione dell’aldilà?).
Il tutto ha una fortissima presenza della tragedia greca e della sua interpretazione freudiana (di cui questo scrittore giapponese sembra intriso), – e qui entra in gioco lo shock, il “disturbo” del lettore – che mette in scena rappresentazioni edipiche con la rottura di qualunque tabù.
E ora veniamo alle pagine “accessorie”, che mai (a mio avviso) dovrebbero esservi in una gradevole letteratura: vi sono, infatti, scene assolutamente inutili in cui alcuni personaggi vengono accompagnati ad esempio al gabinetto o al momento del pranzo o della propria toletta, di cui avrei fatto volentieri a meno.
Anche l’accompagnamento di documenti esplicativi (lettere, rapporti medici o militari) resta un po’ sospeso tra il piacevole e l’incoerente, perché presente solo nella parte iniziale.
Nonostante ciò, ripeto, non sono affatto pentita di questa lettura che mi ha offerto l’opportunità di riflessioni su argomenti di rara profondità, quali il senso della vita.
Ma io ho constatato quanto la foresta sia pericolosa. Mi dico che non devo assolutamente dimenticarmene. Come ha detto il ragazzo chiamato Corvo, il mondo è pieno di cose che io non conosco. Ad esempio non immaginavo che le piante potessero assumere un aspetto così minaccioso. Le piante che avevo visto e toccato fino ad oggi, erano piante di città, addomesticate e coltivate con cura. Ma quelle che ci sono qui, anzi che vivono qui, sono di una specie completamente diversa. Possiedono una forza quasi animale, un respiro che lambisce chiunque passi nelle loro vicinanze, e lo sguardo penetrante di chi concupisce la preda. Qualcosa che fa pensare ad antiche, oscure pratiche magiche. La parte più profonda della foresta è un luogo governato dagli alberi, come gli abissi del mare sono governati dalle creature che ci vivono. In caso di necessità, la foresta potrebbe espellermi, o risucchiarmi nelle sue viscere. Credo che dovrò mostrare, nei confronti degli alberi, il doveroso rispetto e timore.
Buona lettura e buone riflessioni 🙂
Cinzia Di Mauro, autrice catanese di Pangolino mon amour!, tragicomiche avventure del periodo covid, All Around, di una fantascienza orwelliana Finisterrae Delos Digital, di una trilogia di fantascienza Genius (finalista Urania e Delos) Ledizioni, di un noir umoristico La storia vera di un killer nano (segnalato al Premio Calvino), di un thriller sull’alta finanza Paso doble, di I love Meteorite, romanzo grottesco su una famiglia e un mondo distopico.







