Le generazioni si avvicendano ciascuna con un segno distintivo diverso seppur titolari dello stesso cognome. L’equilibrio familiare ha sempre sofferto di vertigini, forse vittima di una strana pandemia che colpisce gli organi dello stesso sangue, primo tra tutti il cuore. I secoli sono stati maestri nel dispensare doveri carenti di privilegi sulla tavola apparecchiata da mani delicate, mani femminili.
Intanto le generazioni continuano a essere generose e consegnano al mondo il podio della bellezza di pertinenza alla Donna.
Nel suo romanzo d’esordio, la giovane scrittrice Aurora Tamigio firma una narrativa scorrevole, appartata nel guscio sensibile di madre natura, femmina come ciascuna delle protagoniste invitate all’eloquio su carta.
“Il cognome delle donne” racconta una intensa storia italiana da cui dipendono altrettante storie di madri, figlie, mogli. Donne con la mano sulla maniglia della porta chiusa a chiave, dietro la quale respirano i doveri che non lasciano scampo alla severità della coscienza.
I sentimenti sono opachi, spesso si intravedono mischiati tra le rovine di un amore o un lutto devastante. Le piccole gioie vengono messe a tacere da una voce maschile arbitro di felicità proibite dal pregiudizio.
In primo piano c’è il faro puntato su Rosa, piccola donna ancora bambina e già calamita umana di violenze fisiche e psicologiche inoltrate dal pugno duro (maschile) della famiglia.
“In tutta la sua vita, non aveva mai avuto davvero paura: si era difesa dalle cinghiate di suo padre, non l’aveva spaventata l’idea di lasciare la famiglia per seguire suo marito, non si era data pena di urlare chissà quanto durante i tre parti. Ma la guerra le aveva fatto conoscere il terrore e la realtà di restare sola e perdere chi amava. E, insieme a lei, anche i suoi figli avevano imparato a conoscere l’odore della paura“.
Prima di Rosa è l’orrore che abbandona il tetto mai stato calda coperta e da quell’abbraccio di ghiaccio scappa per non tornare mai più. Un salto nel buio con Sebastiano Quaranta, uomo mite, orfano di un’intera famiglia, due braccia sicure nelle quali riannodare i fili dell’esistenza.
“Era l’unico uomo al mondo a non sapere come suonarle“.
Rosa e Sebastiano affidano le radici della loro famiglia all’apertura di un’osteria in un paesino di montagna. In poco tempo l’attività diventa il principale ritrovo dei lavoratori già in piedi qualche ora prima dell’alba. L’ombra scura della Seconda Guerra Mondiale interrompe però l’equilibrio economico-familiare impreparato alla prova, poi lo sgretola senza pietà perché di Sebastiano Quaranta non si avranno più notizie.
Quel fiorire testardo dell’umana natura affolla il pianeta di anime offerte ai capricci delle tempeste.
Saranno ancora sequenze di giorni tortuosi per i tre figli di Rosa: Ferdinando, Donata e Selma. La figlia femmina fin troppo sensibile al fascino dell’altra metà della mela, anche se marcia, come lo era Santi Meraviglia detto “Santidivetro” in ragione della sua carnagione diafana. Un uomo dotato di bella presenza, ma incapace di dare alle parole le giuste indicazioni lungo il travagliato tragitto dalla mente alle labbra.
“Era un uomo che non era davvero niente di che“.
La scalata generazionale continua con la produzione di genere umano nel ventre di Selma: Patrizia, Lavinia e Marinella, quest’ultima la preferita di Santi.
Ancora figlie femmine, tre spine in giardino che impediscono un fruttuoso raccolto perché mal tollerato dal seme. Nel bagaglio di responsabilità diviso a strati sembra non esserci alcuna battaglia, né ambizione di vittoria. Le anime coperte di gonne si distruggono nel pianto misto alla rabbia senza premeditare pensieri di fuga da quelle leggi ammuffite dal tempo.
La forza dei sentimenti mette in ombra un attacco al potere maschile che nelle pagine del romanzo langue. Conta l’eredità degli affetti incastonata nella storia di generazioni per dare, e forse ricevere quel poco che basta per vivere una vita a metà tra i doveri e i principi morali conniventi al mondo reale.
L’esordio letterario della Tamigio si sfoglia all’alba del Novecento in un piccolo paese siciliano per poi tradursi in missioni imposte dalla Seconda Guerra Mondiale fino agli anni ’80 del secolo scorso. Un lungo arco temporale quanto lunghi e tortuosi sono i corridoi arbitri del destino delle famiglie. Sono le sofferenze prima ancora che gli uomini ad essere battezzate con un nome, così da renderle riconoscibili alla prima comparsa sull’uscio di casa. Il groviglio dei legami di sangue disegna una scia luminosa quanto quella del sole di Sicilia affacciato al balcone degli affetti più cari, ed è da questo panorama invidiato che una narrativa d’esordio sceglie di raccontare il cono d’ombra dell’universo femminile.
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L’ impiego di parole in dialetto siciliano rivela la posizione geografica del sipario alzato sugli eventi che hanno reso possibile la costruzione del romanzo. All’interno di quattrocento pagine, cinque generazioni e un numero imprecisato di figure femminili hanno visto strappare e subito dopo ricucire le disattenzioni del destino. L’unica àncora di salvezza si riconosce nel circuito empatico dentro cui madri, mogli e sorelle subiscono censure di ogni genere coniugate nello stesso cognome.
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