Dieci anni dopo Massimo Gramellini giornalista, scrittore, conduttore televisivo di successo, riprende la penna autobiografica spesa in un romanzo da top ten letteraria. Nel 2012 l’esordio della sua biografia ebbe un grandissimo successo con oltre un milione di copie vendute, nel 2016 il film diretto da Marco Bellocchio e interpretato da Valerio Mastrandrea fu candidato al David di Donatello, premiato al Nastro d’argento per la migliore scenografia e miglior montaggio.
La carezza gentile dei “bei sogni” meritava un nuovo incontro con la sfera emozionale dello scrittore.
Dieci anni firmano cambiamenti che una primavera felice prova invano a rivoluzionare. Nella moltiplicazione del tempo, un bambino diventa adolescente, poi uomo, poi seme di un altro uomo. Mancheranno le forze troppo deboli per realizzare l’incompiuto, ma la voce che una sera ripeté ai piedi del letto “Fai bei sogni” quella no, quel fruscío di velluto accompagna gli squilli del cuore fino all’applauso a sipario chiuso.
Vita. Morte. La bugia in attesa della Verità temporeggia nel perimetro del suo labirinto, intanto il tramonto si adopera per impallidire i raggi divertiti dal gioco dell’inganno a danno di un bambino.
Perdere la mamma all’età di nove anni strappa la copertina di un libro che, nonostante il contenuto sia da Premio Nobel, la prospettiva interrotta decreta l’esilio con destinazione al macero. Le emozioni cominciano a nascondersi nell’ armadio dietro al vestito che non indossi da anni e che nessuno mai cercherà, nemmeno per togliere la polvere infatuata dalla morte apparente.
La mattina dell’ultimo dell’anno il piccolo Massimo si sveglia orfano, la vestaglia della mamma sopra il suo letto sembra chiedergli di ridisegnare il futuro camminando sulle ombre vuote di carezze. Il primo appuntamento con la paura è in anticipo di anni rubati a una cassaforte traslocata nella dimensione dimentica del biglietto di ritorno. Già dalle prime fasi della guerra a domicilio di un bambino si avvistano posti di blocco ben mimetizzati in quel corpicino innocente: solitudine, abbandono, vuoto fluttuante delle domande orfane come lui, ma di risposte.
“Fai bei sogni”, ripete la voce sempre più innamorata dell’azzurro scelto come alternativa alla velocità impazzita della malattia.
Chiuso nel suo bozzolo pieno di domande, Massimo bambino, adolescente, uomo, contempla l’eredità della vestaglia sul letto. Seta preziosa incapace di sciogliersi in un abbraccio, serva inutile come carta straccia con cui avvolgere tutto il superfluo del mondo.
Massimo cresce in simbiosi a quel sé impietrito nella voragine del dolore dentro cui annega e riemerge mille volte al giorno, attratto e respinto dal passo insicuro della direzione più giusta.
Lontano, molto lontano dal lettino di uno psicoterapeuta perché ci si salva in piedi, magari correndo per salire sul treno in ritardo, l’orfano aggiunge assenze alla mancanza custode del regno immortale.
“Per rintracciare il Vero Me avrei dovuto ripristinare l’equilibrio alterato dalla morte della mamma, riportando in vita con l’immaginazione anche lei. Ma con quale voce mi avrebbe parlato? La sua non la ricordavo più. Di che colore sarebbero stati adesso i suoi capelli biondi, di cui la mia memoria aveva smarrito il profumo? Mi dibatteva in una gabbia mentale, preludio di follia“.
Quarant’anni dopo Massimo non si è ancora stancato di fissare il vuoto, chiede, interroga a squarciagola le figure complici della bugia incartata con un fiocco a due colori: il bianco e il nero. L’innocenza adottata dal “diavolo custode” invidioso della vestaglia sul letto, chiede udienza allo scrigno-guardiano della Verità. Il segreto noto a tutti, protetto da virgole disordinate nello tsunami delle frasi a metà, risorge luce sincera da cuore a cuore, da madre a figlio. Lo chiamarono anestetico al dolore, sbagliando.
“Giuseppina Pastore, 43 anni, madre di un bimbo, disperata per essere affetta da una grave malattia, si è uccisa gettandosi dalla finestra di casa“.
L’articolo portava la data dell’ultimo dell’anno di quarant’anni prima. Un ritaglio di giornale conosceva la Verità e lui no. Questo significava che due righe inchiostrate avevano priorità sulle catene di sangue?
Lei era corpo e spirito d’amore frustrati dalla malattia, i mesi avrebbero devastato gli argini responsabili dell’equilibrio delle cose. Sarebbe stata ancora madre? Per quanto tempo ancora? L’attesa era morte lenta e dolorosa, bisognava insegnarle a correre. In verticale però. Per la seconda volta il cordone ombelicale sarebbe stato reciso ma stavolta con violenza, il tempo di un minuto in volo verso la sua età per sempre.
Anche se la sofferenza è stata somministrata a gocce in un pozzo ingordo di lacrime, quarant’anni dopo Massimo uomo, padre, compagno, apre la porta al sè a lui sconosciuto e, per la prima volta abbraccia il coraggio di chiedergli perdono per aver bloccato tutte le uscite di sicurezza, fatto che gli impedì di crescere immune dalla schiavitù del pensiero ossessivo.
“Sento il suo amore. Mi sono persuaso che l’amore sia l’unica nostra dimensione che non muore. Perciò durante la vita riesce a confonderci tanto coraggio: essendo immortale, a differenza del corpo e della mente non ha paura di morire“.