Autobiogrammatica di Tommaso Giartosio

Autobiogrammatica di Tommaso Giartosio

CATANIA – Il 28 marzo 2025 ci introduciamo in una meraviglia della nostra storia, il Coro di notte del Monastero dei Benedettini di Catania, che con la sua commistione di classico e moderno fa da cornice al dialogo di Tommaso Giartosio con Vincenza Scuderi (germanista e poeta) rientrando nelle attività del progetto di ricerca del DISUM “Piaceri – MigrAIRre” e del Centro di ricerca interuniversitario Polyphonie (Università di Catania e Genova). “Vivere e scrivere tra le lingue”, infatti, presenta l’autore di “Autobiogrammatica” (Minimum Fax).

Pluripremiato scrittore di memoir “Doppio ritratto” (Fazi 1998, Premio Bagutta Opera Prima), “L’O di Roma” (Laterza 2012), “Tutto quello che non abbiamo visto: un viaggio in Eritrea” (Einaudi 2023, Premio Alvaro-Bigiaretti), della raccolta di poesie “Come sarei felice. Storia con Padre” (Einaudi 2019, Premio Napoli), e per l’appunto di “Autobiogrammatica”, votato nella sestina finalista al Premio Strega 2024. Non ultimo il suo impegno come redattore di “Nuovi Argomenti” e conduttore di Fahrenheit su Radio 3.

Ritornando alle definizioni che, purtroppo, tendono ad imbrigliare ciò che per sua natura vorrebbe restar libero: “Autobiogrammatica” si colloca tra il memoir e il Bildungsroman, romanzo di formazione, recando un’organizzazione che va dall’infanzia all’adolescenza. Un esplicito riferimento è a “Lessico familiare” di Natalia Ginzburg, con le sue riflessioni sul linguaggio che si fa storia.

Ma lo scrittore ne marca anche la distanza, come da “Se questo è un uomo” di Primo Levi, perché in questi si racconta una vicenda individuale, ma al contempo collettiva (del popolo ebraico), mentre nel suo c’è la “arroganza” letteraria – così la definisce – di chi parla di una vita comune e totalmente personale. Inoltre, sempre riguardo al modello dichiarato, se la Ginzburg trova in quel “lessico familiare” un’ancora di salvezza, Giartosio vuole invece emanciparsene, staccarsi dalla famiglia, coniando per l’appunto il termine di romanzo di “deformazione”.

Tuttavia, prima di giungere a questo allontanamento viene presentata una famiglia dell’alta borghesia vissuta tra la Lombardia e il Piemonte e poi installatasi, come in un’isola, a Roma, portando con sé un plurilinguismo che tocca i dialetti, il francese e l’inglese (prima con “fille au pair” poi con un lungo soggiorno americano). In questo quadro la madre regala ai figli un profluvio di parole, legate ad un idioletto piemontese socio-familiare, mentre il padre resta nel suo mutismo delle emozioni, dei sentimenti inesprimibili, a cui si uniranno il greco, il latino e persino gli ideogrammi cinesi, mediati da uno scrittore controverso, Ezra Pound.

Un altro elemento ricorrente in questo romanzo è la metaletteratura: “Lettore, lettrice: metti su un caffè. Faremo tardi”. Presente anche nel capitolo “Tutti hanno già scritto questo libro”, perché semplicemente tutti hanno lavorato e riflettuto sul proprio linguaggio, pur in modo inconscio. E, benché Giartosio si schermisca dai facili approfondimenti freudiani, le frequenze di certo lessico, ad esempio della madre, non possono che essere riconducibili ad un apparato psichico: il vocabolario del disastro (di chi ha vissuto la guerra) o dell’educazione economica (alla parsimonia, a dar valore alle cose).

Lo stile è del tutto innovativo, rispetto alla classicità contemporanea, riprendendo la vivacità del primo romanzo, ibrido alla Rabelais. Si muove tra questa fascinazione dell’alfabeto, delle lingue, con “metafore generatrici”, e infinite digressioni, tutte in qualche modo correlate.

Siamo cateratte di parole. E ogni parola che ci affiora alla mente o alla bocca, anche quella che abbiamo deliberato con la massima attenzione, a ripensarci ci spiazza. Ogni parola a guardarla bene sembra un po’ esorbitante: tanto è seghettato o lobato il suo esserci, tanto irriducibile al suo mero significato, come pure al sottile reticolato del silenzio. È una foglia che volteggia sul labbro di uno strapiombo (ma in realtà siamo noi a rallentare, a puntare i piedi controcorrente per poterla studiare almeno un rapido istante); poi scompare alla vista (la mente passa oltre, o la voce si spegne, o il libro viene richiuso con un tonfo). Sappiamo però che non si dissolve. Mai. Se devo giudicare dalla mia esperienza, direi che mai, o quasi mai, una parola muore. Si è solo persa tra milioni di altre che scorrono via verso altre cascate. Moltissime imboccano un letto ipogeo circolare, una gola che le riporta indietro: e torneremo a usarle. (O loro useranno noi, che siamo tanto più consumabili? È sempre strano usare la parola usare per le parole). (pp. 40-41)

Buona lettura e buone riflessioni 🙂 

Cinzia Di Mauro, autrice catanese di una trilogia di fantascienza Genius (finalista Urania e Delos, Ledizioni Milano),  di un noir umoristico La storia vera di un killer nano (segnalato al Premio Calvino e a fine anno in uscita per Delos Digital), di un romanzo distopico Finisterrae (Delos Digital), e di Pangolino mon amour! (All Around), tragicomico racconto dell’epoca covid, di un thriller sull’alta finanza Paso doble, di I love Meteorite, romanzo grottesco su una famiglia e un mondo distopico.

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