CATANIA – Prendersi cura, pur sapendo di non poter curare. Di non poter più offrire una prospettiva di guarigione, di dover accettare i limiti delle cure palliative, destinate a malati per i quali tutto è già stato tentato. È in questo “limbo” tra la vita e la morte che si colloca il lavoro degli operatori dell’Hospice dell’Arnas Garibaldi di Catania, determinati ad accompagnare i pazienti nel loro ultimo viaggio. A riportare un po’ di luce lì dove il buio regna ormai sovrano, rischiando di spegnere definitivamente la speranza di un futuro luminoso. Speranza che però in qualcuno continua a sopravvivere, facendosi strada tra le tenebre della malattia di un proprio caro.
È il caso di Filippo, marito di una paziente oncologica ricoverata nella struttura, pronto ogni giorno a tenere fede alla promessa di esserci nella buona e nella cattiva sorte.
Nella buona e nella cattiva sorte
“Quando siamo arrivati mia moglie era in condizioni disastrose. Era più di là che di qua: si rifiutava di mangiare, di farsi curare, si lasciava andare negativamente. Era aggressiva, ma non era lei ovviamente: era la condizione in cui si trovava”. Lo ha spiegato Filippo facendo riferimento al macigno che da un giorno all’altro è caduto sulle spalle della moglie, trascinando inevitabilmente giù con sé anche i suoi cari, a partire proprio da lui, l’uomo che ha promesso di amarla “nella salute e nella malattia“. E che ogni giorno le resta accanto, per onorare un amore senza fine, come quello che canta Pino Daniele. Proprio come quello di chi non si arrende, di chi è pronto a raccogliere tutto quello che la propria esistenza ha da offrire, a gioire di ogni progresso, a stringere più forte la mano dell’altro quando la vita rimescola le carte e le cose si fanno difficili.
Un senso di gratitudine immenso quello mostrato da Filippo, testimone di come l’Hospice possa riportare il colore sulla stessa tela che fino a poco prima sembrava destinata al solo bianco e nero: “Posso dire che da quando è qui è rinata, è un’altra persona. La mia esperienza qui è più che positiva. Certamente nel mio cuore confido sempre nel miracolo e che il Signore ci possa mettere le sue mani affinché possa smaltire la radio e la chemio che ha fatto: solo così si potrebbe fare qualcosa. In cuor mio ci spero ancora, ma sempre grazie a queste persone, a questa struttura, al dott. D’Antoni, al dott. Pisa, a tutta l’equipe, escluso nessuno. Sono persone che fanno il loro lavoro per vocazione, sono persone che mettono l’anima”.
Prendersi cura di chi ha i giorni contati
Un lavoro non facile anche per chi questa realtà ce l’ha ogni giorno sotto gli occhi, come medici, infermieri e Oss, consapevoli della delicatezza del loro ruolo e di come un semplice gesto, nel loro ambiente, possa fare la differenza. Ne ha parlato – ai nostri microfoni – una delle infermiere, Luisa: “Sono molto onorata di lavorare in questo ambiente perché qui i rapporti con il personale, con i pazienti sono molto significativi. Noi accompagniamo queste persone nel migliore dei modi, cercando di dare il massimo sia a livello professionale sia soprattutto a livello umano”.
Migliorare la qualità della vita, capire che non tutto è perduto. Che c’è ancora qualcosa da salvare, anche lì dove molti avrebbero già buttato la spugna. È questo che rende tanto speciale quanto fondamentale il ruolo dei professionisti del settore, capaci di continuare a cercare lì dove nessuno guarda mai. “Io sono contenta di stare in questo reparto e di poter dare qualcosa. Penso che sia importante. Non la vivo come una cosa negativa”, ha spiegato l’infermiera. “Cos’ho imparato io negli anni? Che per queste persone qualsiasi cosa tu debba fare, la devi fare adesso. Non puoi rimandare. Quindi quel poco che posso fare mi dà tanto, anche a livello affettivo. Poi sicuramente penso di avere tanti angeli custodi perché molti mi hanno voluto bene e quindi so che mi proteggono”.
Inevitabile, in molti casi, per chi lavora con pazienti terminali lasciarsi travolgere dal dolore legato alla loro perdita, alle stanze vuote, al silenzio assordante che segue il passaggio di uno di loro a miglior vita. Una mancanza ingombrante, quella di chi prima c’era e ora non c’è più. Quella di persone che gradualmente hanno perso tutto, ma non il coraggio, requisito fondamentale per non lasciarsi schiacciare dal peso delle disgrazie che da un momento all’altro spezzano l’incanto.
“Quando uno di loro se ne va, io provo sempre un profondo dispiacere, però – prosegue Luisa – non mi vergogno di questo perché penso sia una cosa umana. Il giorno in cui non proverò più nulla mi preoccuperò perché vuol dire che mi sono distaccata troppo. Il paziente e la famiglia lo sentono se tu sei autentica, se veramente ti importa. Lo percepiscono. E per loro è molto importante”.
La sofferenza che si tocca con mano
Centrale nella struttura il ruolo del dott. Orazio D’Antoni, primario dell’Hospice, che ha fatto il punto sul lavoro che lui e i suoi colleghi svolgono quotidianamente. “Siamo noi a garantire loro un fine vita dignitoso, prendendo in carico non solo il paziente, ma anche i familiari”. Entrando più nello specifico, il medico ha precisato che la struttura si occupa esclusivamente di malati oncologici e che “le patologie più frequenti sono i tumori polmonari, quelli gastroenterici e quelli della sfera genitale”.
Un altro dei “pilastri” dell’Hospice è rappresentato dal dott. Antonino Pisa, che ha raccontato ai nostri microfoni la sua esperienza tra le mura della struttura: “Io provengo da un’esperienza di Pronto Soccorso. Lavoravo lì fino a qualche anno fa. Questo è un ambito completamente nuovo. Nuovo ma arricchente. Da un punto di vista non solo deontologico e professionale, ma anche etico, morale e religioso, qui si trova un mondo totalmente diverso. Il rapporto tra personale medico, paramedico e pazienti è molto più intimo, perché la sofferenza si tocca con mano, mentre nel precedente reparto, trattandosi di un Pronto Soccorso, era sfuggevole.
Fino all’ultimo respiro
Medici, infermieri, OSS, ma anche psicologi lavorano al servizio dei pazienti, vittime anche di una condizione mentale estremamente delicata.
A fare un quadro generale del lavoro dello psicologo all’interno della struttura è stata la dott.ssa Maria Pantellaro, una delle dirigenti psicologhe dell’azienda sanitaria.
“Per lavorare in un reparto dove ti prendi cura dei malati, ma non li puoi guarire bisogna davvero essere consapevoli del significato profondo di quello che si fa, e cioè sapere che comunque tu puoi offrire qualcosa di importante anche a coloro che vivono l’ultima fase della vita; ed è questo che ci motiva nel lavoro che svolgiamo. Garantire al paziente un fine vita dignitoso e senza dolore è compito dei medici, mentre noi psicologi cerchiamo di dare valore e dignità agli ultimi periodi della sua vita: farlo sentire importante come persona fino all’ultimo giorno, in modo che non percepisca di essere considerato un moribondo o un morente ma una persona che realmente è viva fino a quando effettivamente ha vita”.
Sottile il confine tra la necessità di provare empatia e il bisogno di mantenere comunque una forma di distacco nella cura dei pazienti. “Da un lato – ha spiegato la dottoressa – è necessario un certo coinvolgimento emotivo, perché bisogna entrare nella sofferenza dell’altro, ma allo stesso tempo è indispensabile mantenere un’opportuna distanza emotiva. In pratica, lo psicologo deve tenere a mente che la sofferenza non è la propria ma è di quel paziente, anche se in quel momento la condivide con lui. Insomma, chi si occupa di questo delicato settore deve sempre sapere distinguere tra ciò che appartiene all’intimo del malato e ciò che appartiene a sé stesso. Quella che si osserva è una sofferenza che non appartiene a noi operatori: la si può condividere, bisogna comprenderla, ma non la si deve fare propria”.
“Poi c’è tutto il lavoro da fare con le famiglie“, ha aggiunto Maria Pantellaro, spiegando che il lavoro con i pazienti non è l’unico di cui gli psicologi della struttura si occupano. Chiarezza e trasparenza sono i princìpi che stanno alla base del rapporto che si instaura con i parenti perché “anche quando sembra che vi sia consapevolezza, spesso invece agisce la negazione, e cioè la difficoltà di accettazione che porta a negare la situazione reale. Così, basta un minimo miglioramento e la famiglia fa un passo indietro, incominciando a sperare di nuovo in utopistiche possibilità di guarigione. Ed è qui che, pur con difficoltà, bisogna riportarli alla realtà”.
Di particolare rilevanza anche il lavoro che si fa nell’ambito del cosiddetto “lutto anticipatorio”, la perdita progressiva di funzionalità ed energie del congiunto: “La perdita della persona cara non è ancora definitiva – prosegue – ma, poco a poco, si perdono, potremmo dire, pezzi della stessa. Si inizia dal momento in cui il parente ricoverato comincia a non camminare, poi a non mangiare, e così via dicendo: sono come piccoli lutti, e dopo questi la persona malata non è più la stessa perché se ne sono perse delle parti. Ma tutto ciò aiuta la famiglia ad abituarsi all’idea del lutto finale, quello definitivo, perché le varie perdite progressive agevolano l’elaborazione, necessaria, del lutto dopo la morte. Un’elaborazione ancor più naturale se si è constatato che la persona cara non ha sofferto e – conclude la psicologa – ha concluso la propria vita senza dolore e con dignità. Il che, in definitiva, è la missione dell’istituzione denominata Hospice”.
Le testimonianze delle OSS
“Per lavorare qua ci vuole una forza pazzesca, perché sai che quel paziente se ne deve andare. Appena la sbarra del Garibaldi si abbassa, devi dimenticare tutto il turno, perché il lavoro a casa non lo puoi portare. È un peso troppo grande”.
Lo hanno detto due OSS in servizio all’Hospice, Concetta e Maria, sottolineando il quotidiano rischio di oltrepassare il confine che divide il lavoro nella struttura dalla loro vita personale. Un pericolo che di solito sono in grado di arginare, ma che a volte si ripercuote comunque sulle proprie giornate: “Tu fuori vivi la vita diversamente rispetto agli altri“, hanno spiegato le due operatrici socio-sanitarie, consapevoli di come un’esperienza del genere possa cambiare la propria visione del mondo. Perfino un litigio, un’incomprensione, un’arrabbiatura nella propria vita quotidiana perdono significato se paragonate al dolore e all’angoscia che ogni giorno si legge negli occhi di chi, nonostante tutto, spera ancora.
L’ultimo viaggio
Il servizio