“U facissi a so casa. Non vi voglio qua dentro”. I dettagli di come sono stati cacciati da una pizzeria di Nicolosi 12 disabili. “Trattati come bestie”

“U facissi a so casa. Non vi voglio qua dentro”. I dettagli di come sono stati cacciati da una pizzeria di Nicolosi 12 disabili. “Trattati come bestie”

CATANIA –Sono certa che quel gesto mi perseguiterà a lungo. Avrò davvero difficoltà a non farlo riaffiorare spesso. Indicandomi con un gesto odioso della mano la porta alle mie spalle mi ha detto «Quella è l’uscita. Io stasera a voi non vi servo. Non vi voglio qua dentro»”.

Graziella Lentini è un fiume in piena. Sembra non prendere fiato mentre ci racconta nel dettaglio quello di cui è stata vittima e testimone. Graziella è un’assistente sociale del Csr di Viagrande, la sede in provincia di Catania del Consorzio Siciliano di Riabilitazione. Mercoledì sera si è presentata puntuale nel ristorante-pizzeria di Nicolosi dove aveva prenotato i posti per cenare insieme con 8 colleghi e 12 ragazzi assistiti e residenti nel centro.

Ovviamente avevo specificato che 12 persone del nostro gruppo – sottolinea Graziella Lentini – avrebbero avuto la sedia a rotelle e che alcuni di loro non erano autonomi, quindi avrebbero avuto bisogno di un operatore accanto che li aiutasse a cenare”. Da quel locale che adesso infanga la reputazione della Porta dell’Etna, così come orgogliosamente si definisce il comune pedemontano, sono stati buttati fuori, cacciati “Come delle bestie. Sì, il gestore ci ha cacciati come se fossimo delle bestie, qualcosa di ributtante da allontanare da sé al più presto”.

Graziella riesce a stento a trattenere rabbia e amarezza. E i termini li usa con attenzione per fare capire bene quel che è accaduto e che vorrebbe non si ripetesse più “Perché è inaccettabile che ancora si discrimini un essere umano per via di una difficoltà, di una disabilità, un termine che noi non sopportiamo: siamo tutti persone, io cammino grazie alle gambe, loro per mezzo di una carrozzina. Siamo tutti persone, essere umani ed è assurdo che ancora si debba spiegare qualcosa che dovrebbe essere ovvio, umano. Quel che è avvenuto mercoledì è stato disumano”.

Quando siamo entrati dentro il locale – continua Graziella – abbiamo visto che tutti i posti erano occupati dalle sedie. Lo abbiamo fatto notare al proprietario, che con toni sgarbati ha detto ad un cameriere di toglierne alcune. Allora gli abbiamo ricordato che erano 12 i posti da lasciare liberi per permettere l’accesso al tavolo alle carrozzine e che non potevamo sistemarci così come lui avrebbe voluto imporci, cioè con i ragazzi con la sedia a rotelle tutti insieme da un lato e gli operatori di fronte, visto che alcuni di loro avrebbero avuto bisogno di qualcuno che li imboccasse. E lui cosa fa? Sbotta e con tono ancor più sgarbato di quello che già avevamo sentito mi dice «No. Le altre sedie non le faccio togliere. Chistu u facissi a so casa, mica po cummannari a me casa» (in dialetto: questo lo faccia a casa sua, non può comandare a casa mia, ndr)”.

Subito dopo, quel gesto inqualificabile nell’inqualificabile vicenda. La mano che indica l’uscita col moto oscillatorio che mima la volontà di cacciare qualcuno e quella frase che non lascia dubbi «Quella è l’uscita. Io stasera a voi non vi servo. Non vi voglio qua dentro».

Sono rimasta di ghiaccio. Siamo rimasti di ghiaccio – racconta ancora Graziella – e con i miei colleghi abbiamo deciso di mantenere i nervi ben saldi, anche se non è stato facile. Per noi la priorità sono i ragazzi, che per noi sono come membri delle nostre rispettive famiglie e con i quali viviamo momenti di svago che non consideriamo terapia, ma condivisione, piacere di stare assieme e trascorrere del tempo in maniera spensierata così come chiunque. Per questo abbiamo cercato di non fare comprendere loro subito quel che stava succedendo, soprattutto il perché. Così siamo andati via, anche se prima di andarmene ho avvicinato il cameriere che era stato trattato come se fosse uno schiavo e che, insieme con gli altri suoi colleghi che hanno assistito al comportamento del gestore nei nostri confronti, era visibilmente scosso, e gli ho detto che, sì, il lavoro è importante, ma non si può accettare di essere trattati in una maniera così indegna”.

Ma sul mezzo del Csr col quale il gruppo aveva raggiunto il locale, i ragazzi hanno voluto sapere: “Si sono offesi. Ci si è stretto il cuore. Così abbiamo reagito con l’ironia. Ci abbiamo scherzato su, ci siamo detti che non ci meritava quel tizio lì, che non ci avrebbe mai più visto. E dire che erano stati proprio i ragazzi a chiederci di cambiare locale, visto che volevano andare in uno diverso da quello che frequentiamo di solito a Nicolosi, così, tanto per vedere un posto nuovo. Non l’avessimo mai fatto”.

Perché non tutti sono così come l’indefinibile essere che ha cacciato 12 ragazzi che, una volta visti tutti insieme nel suo locale, lo hanno disturbato con le loro carrozzine, col loro bisogno di essere imboccati, con il loro diritto alla vita. Giammai, guai a pretendere certi diritti.

Non ci siamo abbattuti. La serata è stata salvata – Graziella sospira – abbiamo telefonato al gestore della pizzeria dove andiamo di solito a Nicolosi e ci ha accolto come sempre a braccia aperte. Così come fa il proprietario del locale di Catania dove coi ragazzi andiamo a mangiare la carne di cavallo: ci riempie di attenzioni, dobbiamo rifiutare la gran quantità di cibo che è felice di offrirci, perché vorrebbe anche non farci pagare, con tanto di dolce, caffè e amaro alla fine. Pensate che durante i festeggiamenti in onore di S. Agata ci ha riservato interamente la parte più elegante inaugurata di recente nel suo locale. Tutta per noi in un periodo di massimo afflusso di clienti. E a Zafferana, quando ho chiamato per prenotare, il proprietario mi ha detto che il giorno richiesto sarebbe stato quello di chiusura, «Ma per voi è un piacere lavorare anche nel giorno di riposo», ci ha risposto. E così abbiamo trascorso un’altra piacevolissima serata. Insomma, fortunatamente, c’è anche l’altra faccia della medaglia, c’è chi fa onore alla definizione di umanità, rispetto per il prossimo, condivisione”.

Quanto subito dal gruppo del Csr non è passato inosservato. Sul web non si contano i commenti carichi di indignazione. Si chiede a gran voce il nome del locale per boicottarlo e per punirlo con la gogna mediatica.

Il Codacons di Catania chiede che emerga il nome della pizzeria, che il proprietario venga punito con la sospensione dell’attività lavorativa e mette a disposizione i propri legali per una eventuale causa contro il titolare del locale.

Il sindaco di Nicolosi, Nino Borzì, ha espresso solidarietà e rincrescimento “Sì, quando ha letto la notizia – rivela Graziella – ci ha subito chiamato per manifestarci il dispiacere per quanto avvenuto, ci ha annunciato che convocherà il Consiglio Comunale per discutere della vicenda che colpisce l’intera comunità di Nicolosi e che non è rappresentata dal gestore che ci ha offeso. Tant’è che ci ha invitato tutti a Nicolosi per ricevere l’abbraccio caloroso della gente. Anche l’assessore comunale per lo Sviluppo Economico e le Attività Produttive di Nicolosi, Stefano Ragno, ci ha inviato dei messaggi di scuse e solidarietà. È questo quel che desideriamo, sensibilizzare. Ecco perché non abbiamo rivelato pubblicamente il nome del locale e non abbiamo sporto denuncia nonostante il Csr possa contare su fior di avvocati. Il nostro scopo non è colpire il singolo, ma fare capire che certe cose non devono avvenire mai più”.

Perché avvengono. Purtroppo, avvengono. E i rappresentanti del Csr hanno deciso di esporsi proprio perché già la scorsa estate avevano subito un episodio simile di discriminazione a Capo Mulini, il borgo marinaro incastonato fra Catania e Acireale.

“Avevamo trascorso una serata in uno dei locali che si trovano sul lungomare – ricorda Graziella – uno di quelli caratteristici con le verande sul mare. Siamo stati accolti bene e così abbiamo deciso di tornarci. Dopo 15 giorni ho richiamato per prenotare, ma ci hanno detto che non potevano riservarci dei posti perché sarebbe stato tutto pieno fino a tarda notte. Così abbiamo prenotato, sempre per lo stesso giorno, in un altro locale poco distante. Siamo passati davanti al locale che non aveva posti da riservarci all’andata, durante la cena per verificare quanto notato, eppoi alla fine: il locale era vuoto e un cameriere stava sull’uscio per invitare i passanti ad accomodarsi. Ci hanno detto una bugia perché evidentemente non eravamo più graditi. Averci accolto una volta era stato considerato già troppo…”.

Il tono soffiato del sorriso amaro resta sospeso quando le riferiamo che accanto alla stragrande maggioranza di commenti di solidarietà apparsi sui social ci sono anche quelli di chi lancia il sospetto che la notizia sia una bufala, che il non rivelare il nome del locale nasconda chissà cosa. E colpisce che a farlo siano anche cittadini che utilizzano la sedia a rotelle. “Non ho avuto modo di leggere le reazioni. Sono stata impegnata coi ragazzi del centro. Quel che mi riferite, però, non mi stupisce – conclude Graziella Lentini -. Lo sbattere in faccia che possano esistere persone così come quella che ci ha cacciati, in alcuni ha un effetto disturbante: certe cose sarebbe meglio non saperle, sarebbe meglio che la vittima le tenesse per sé, per non disturbare la quiete di una comunità o per non fare cadere certe maschere dove dietro alcuni si nascondono, creandosi un’immagine di sé che, magari, in realtà non è poi così distante da coloro che si rendono responsabili di atti discriminatori. Meglio il silenzio, meglio continuare a credere che la disumanità non esista, che la cattiveria non esista, che la grettezza non esista e se qualcuno dice il contrario, che taccia, che non dica bufale. Purtroppo, ripeto, certe cose accadono, eccome. La strada per una vera, compiuta inclusione sociale è ancora lunga. Lo vedo negli sguardi di fastidio o commiserazione che vengono riservati da taluni ai nostri ragazzi quando andiamo in giro. Ma il vero disabile è il gestore che ci ha cacciati, chi è schiavo dei pregiudizi”.

Alessandro Sofia