CATANIA – Nella mattinata odierna, in seguito a indagini coordinate dalla Direzione Distrettuale Antimafia della Procura della Repubblica di Catania ed eseguite dai carabinieri, è stata eseguita un’ordinanza di custodia cautelare emessa dal Giudice per le indagini preliminari al Tribunale di Catania nei confronti di 40 soggetti, 30 dei quali destinatari di provvedimento di custodia in carcere e 10 collocati agli arresti domiciliari.
Il provvedimento è stato eseguito da circa 300 carabinieri del comando compagnia di Paternò (Catania), dei comandi provinciali di Catania, Palermo, Messina, Siracusa, Caltanissetta e dei reparti specializzati quali quelli del XII Reggimento “Sicilia”, dello Squadrone Elitrasportato Cacciatori di Sicilia, del Nucleo Cinofili di Nicolosi (Catania) e del Nucleo Elicotteri di Catania, nei confronti di appartenenti alla famiglia catanese di Cosa Nostra, storicamente promossa e diretta al vertice da Benedetto Santapaola, Aldo Ercolano (di 61 anni) e Vincenzo Santapaola e denominata clan “Santapaola-Ercolano”, articolato in gruppi stanziati sul territorio della provincia di Catania e in particolare nei confronti del gruppo di Paternò storicamente diretto dalle famiglie Alleruzzo, Assinnata e Amantea, a al gruppo di Belpasso.
Il sodalizio mafioso operante a Paternò, e già facente capo a Giuseppe Alleruzzo, di 86 anni, è stato poi riorganizzato da Domenico Assinnata (di 69 anni) e dal figlio Salvatore di 49 anni come emergeva dalle operazioni “Orsa maggiore”, che nel 1993 per la prima volta individuava i gruppi dell’hinterland catanese ricollegabili alla famiglia Santapaola, e dalle successive operazioni denominate “Padrini” – che accertava l’operatività del clan sino al maggio del 2006 – e “Fiori bianchi” che ne accertava l’esistenza e operatività fino all’aprile 2010.
Sulla scorta delle sentenze passate in giudicato sopra menzionate, è risultata giudiziariamente accertata l’esistenza di un clan mafioso operante a Paternò, diretto e organizzato nel tempo dalle famiglie Alleruzzo, Assinnata e Amantea.
Gli indagati nell’ambito dell’odierna indagine rispondono dell’accusa di associazione per delinquere di tipo mafioso, estorsione, associazione per delinquere finalizzata al traffico e allo spaccio di sostanze stupefacenti, associazione per delinquere finalizzata alle truffe aggravate per il conseguimento di erogazioni pubbliche da parte dell’INPS. I fatti sono contestati sino all’agosto 2019.
Le indagini prendevano le mosse nell’ottobre 2017 dalle dichiarazioni rese dapprima dai collaboratori di giustizia Mirko Presti e Gianluca Presti, e poi dai collaboratori Orazio Farina e Giuseppe Caliò, i quali tra l’altro riferivano che l’ergastolano Santo Alleruzzo inteso “a vipera” in occasione dei permessi premio si è recato a Paternò per impartire direttive al clan, mantenendo quindi un ruolo di comando.
Successivamente sono state effettuate numerose attività tecniche e di riscontro da parte dei carabinieri della compagnia di Paternò, all’esito delle quali è emerso che il clan mafioso operante a Paternò e facente parte del clan “Santapaola-Ercolano”, al suo interno era a sua volta articolato in tre gruppi, facenti rispettivamente capo alle storiche “famiglie” mafiose suddette.
È emerso inoltre che capo e organizzatore del gruppo, da gennaio 2018 a giugno 2019, vi era Pietro Puglisi, soggetto già condannato definitivamente sia per il delitto di cui all’art. 416 bis c.p. che per più estorsioni aggravate.
Dunque, in sintesi, all’esito delle indagini è stata delineata la seguente ripartizione in sottogruppi del clan mafioso: il gruppo che faceva riferimento alla famiglia Alleruzzo, guidato dall’ergastolano Santo Alleruzzo; il gruppo che faceva capo alla famiglia Assinnata, con a capo Pietro Puglisi e Domenico Senior Assinnata, quest’ultimo quale figura storica e carismatica del clan; il gruppo che faceva capo alla famiglia Amantea guidato da Salvatore Vito Amantea e Giuseppe Beato, quest’ultimo già stretto collaboratore di Francesco Amantea, padre di Salvatore Vito, storico uomo d’onore del clan; ed infine il gruppo di Belpasso, gestito da Barbaro Stimoli e Daniele Licciardello.
Dalle indagini sono emersi anche i contributi al sodalizio mafioso da parte di imprenditori di Paternò con condotte volte a favorire consapevolmente le illecite attività del clan. Emblematica in tal senso la posizione di Salvatore Tortomasi, ritenuto responsabile di concorso in associazione mafiosa poiché, quale titolare di una ditta che si occupava di commercializzazione di prodotti agricoli e ortofrutticoli, pattuendo con i vertici sia dell’intero clan mafioso “Santapaola-Ercolano”, sia del gruppo di Paternò, e in particolare con la famiglia Amantea, il versamento di somme di denaro anche quale percentuale degli utili dell’attività di impresa e consentendo agli stessi di concludere affari occultamente in società con se stesso, riusciva nei territori sotto il controllo del clan mafioso a imporsi in posizione dominante nelle attività economiche esercitate, ottenendo protezione anche nei confronti dei creditori e di altri clan mafiosi, così favorendo la realizzazione di profitti e vantaggi ingiusti per il clan, al quale forniva un contributo stabile e protratto nel tempo alla realizzazione delle finalità della medesima organizzazione mafiosa.
Altre figure imprenditoriali di Paternò in rapporti con il clan erano quelle di Angelo Nicotra, proprietario di importanti gioiellerie, e di Enrico Maria Corsaro, ai quali sono state contestate condotte volte a consentire rispettivamente a Pietro Puglisi e a Vito Salvatore Amantea di nascondere la provenienza illecita di beni e somme di denaro.
L’indagine, come anticipato, ha permesso anche di disarticolare tre diverse associazioni per delinquere finalizzate al traffico di stupefacenti. In particolare, è stato possibile accertare l’esistenza di tre diversi sodalizi, tutti collegati ai già citati gruppi territoriali del clan “Santapaola-Ercolano” e in particolare: un primo sodalizio diretto e organizzato da Pietro Puglisi e Giuseppe Mobilia e facente capo principalmente alla famiglia mafiosa Assinnata; un secondo sodalizio diretto e organizzato da Vito Salvatore Amantea e da Barbaro Stimoli, operante su Paternò e Belpasso; e infine un sodalizio diretto da Salvatore Stimoli e sempre operante a Paternò.
Ancora, è stata contestata una tentata estorsione aggravata ai danni dell’industria dolciaria “Condorelli” di Belpasso.
Nel corso delle indagini è emerso, inoltre, l’esistenza di un sodalizio, capeggiato da Salvatore Vito Amantea e Giuseppe Beato, componenti anche del clan mafioso, finalizzato a commettere più delitti di truffa e falso in danno dell’INPS, al fine di fare ottenere indebitamente l’indennità di disoccupazione agricola a falsi braccianti agricoli compiacenti.
Segnatamente Giuseppe Beato e Salvatore Vito Amantea, con ruolo di promotori e organizzatori del sodalizio, anche facendo valere la loro qualità di esponenti di spicco del clan mafioso “Alleruzzo – Assinnata”, promuovevano, dirigevano e organizzavano una rete di ditte compiacenti e soggetti che agivano quali procacciatori di falsi “braccianti agricoli”, in modo da fare falsamente risultare a questi ultimi un numero di giornate lavorative idoneo ad ottenere l’indennità di disoccupazione e incassando poi dai falsi braccianti il compenso pattuito.
In sintesi, i sodali procuravano i nominativi di soggetti compiacenti i quali dovevano figurare come “braccianti agricoli” e con i quali si accordavano per ottenere un compenso pari a circa 20 euro per ogni giornata lavorativa falsamente dichiarata; tenevano i contatti con alcune ditte e, di comune accordo con tali soggetti, predisponevano tutta la documentazione necessaria ed inoltravano all’INPS le domande per la disoccupazione.
In questo modo il denaro pubblico destinato a sovvenzionare i braccianti agricoli stagionali per i periodi che non potevano lavorare, andava ad alimentare le casse del clan mafioso che peraltro acquisiva la gratitudine di soggetti compiacenti i quali, grazie a tale sistema, ricevevano comunque somme di denaro pubblico senza mai avere svolto alcuna attività e senza averne diritto.
Il Giudice per le indagini preliminari ha applicato la misura cautelare della custodia in carcere nei confronti di:
Il Giudice per le indagini preliminari ha applicato la misura cautelare degli arresti domiciliari nei confronti di:
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