CATANIA – Tante domande, poche e frammentarie risposte. Di fronte a tanto dolore per la morte della piccola Elena Del Pozzo, si cerca di comprendere a fondo per tentare di dare una spiegazione a gesti estremi e incontrollati.
La madre, Martina Patti, avrebbe forse pianificato l’omicidio della figlia che, ignara di tutto, all’uscita da scuola l’ha abbracciata senza sapere che quella sarebbe stata l’ultima volta e che quelle stesse mani l’avrebbero – poco dopo – accoltellata.
Accanto allo sgomento e la rabbia, bisogna andare a fondo negli avvenimenti. La mente umana, si sa, è molto labile e – a tratti – incomprensibile. La madre non solo sarebbe crollata davanti ai militari confessando tutto ma, dopo aver compiuto il fatto avrebbe dichiarato di non ricordare nulla, quasi come a voler negare automaticamente di aver strappato alla vita sua figlia. Nel profondo, però, c’è ben altro.
Valentina Lucia La Rosa, psicologa e psicoterapeuta di Catania, è intervenuta ai nostri microfoni per fare luce sulla vicenda e chiarire alcuni dubbi.
Cosa scatta nella mente di un genitore quando decide di mettere fine alla vita del proprio figlio?
“Diventare genitori non è, come tutti erroneamente pensano, un evento fisiologico e naturale ma richiede un profondo lavoro di ricostruzione della propria identità per accogliere nel proprio progetto di vita un nuovo individuo che è il figlio. Di conseguenza, ci sono dei casi in cui questo lavoro psicologico fallisce e il figlio non viene realmente accolto nella vita del genitore come soggetto autonomo e dotato di un’identità separata da quella dei genitori. Le conseguenze sono diverse ma nei casi più gravi, quando si inseriscono altri fattori come psicopatologie dei genitori e contesti socio-culturali problematici, si può arrivare addirittura all’infanticidio.
Generalmente, si ritiene che questi delitti siano più frequenti tra le madri ma non è esattamente così: si stima, infatti, che le madri rappresentino il 59% dei genitori che commettono un figlicidio, mentre i padri il 41%. Tuttavia, un figlicidio per mano della madre, come accaduto a Catania, ha inevitabilmente una risonanza sia mediatica che affettiva diversa in quanto la madre è colei che porta in grembo il figlio per nove mesi e che, nell’immaginario collettivo, crea inevitabilmente con il figlio un legame speciale e indistruttibile.
Anche questa tuttavia è una credenza sbagliata perché per molte donne la maternità è un evento complesso da gestire a livello psicologico e che, anche a distanza di anni, può far esplodere condizioni di disagio rimaste sotto traccia.
Non esiste un motivo per cui un genitore decide di mettere fine alla vita del proprio figlio ma un insieme di cause scatenanti possono concorrere a portare a questi tragici epiloghi: scarso supporto sociale, depressione o altri disturbi psicopatologici, povertà e instabilità economica, conflitti con il partner”.
Può un figlio diventare un “oggetto” da usare contro l’ex partner?
“In caso di separazioni particolarmente conflittuali, i figli possono diventare oggetti da usare contro l’ex partner. Questo succede in particolare quando il figlio non è considerato nella sua individualità e come soggetto separato dai genitori bensì come una loro appendice.
Questa ‘oggettificazione‘ del figlio denota una relazione disfunzionale con i genitori, non basata sull’affetto ma su aspetti materiali e strumentali. Questi contesti caratterizzati da conflittualità accese tra i genitori rappresentano un terreno molto fertile per l’esplosione del disagio che può sfociare nel figlicidio, proprio come accaduto a Catania“.
Il complesso di Medea, uccidere il figlio per colpire l’ex compagno?
“In psicologia, si usa l’espressione ‘complesso di Medea‘ per indicare quei casi in cui la madre uccide il proprio figlio per colpire il partner e vendicarsi di lui. Sembrerebbe essere questo il caso della madre di Catania che ha ucciso la propria bambina per vendetta verso l’ex compagno e per gelosia verso la sua nuova compagna.
Si parla di complesso di Medea dal famoso mito di Medea che uccise i figli avuti da Giasone per vendetta. Nel mito, Medea, dotata di poteri magici, aiutò Giasone a conquistare il vello d’oro facendosi promettere in cambio il matrimonio. Compiuta l’impresa, le nozze vennero celebrate sull’isola dei Feaci. Ma l’unione si ruppe quando la coppia si stabilì a Corinto. Creonte bandì Medea per dare in sposa sua figlia Glauce a Giasone. E Medea si vendicò facendo morire nel fuoco Glauce e Creonte e uccidendo i figli che aveva avuto da Giasone.
Non è possibile individuare dei fattori di rischio univoci per il complesso di Medea ma sicuramente tra i principali possiamo considerare la giovane età, condizioni socio-economiche svantaggiate, basso livello di istruzione, contesto familiare conflittuale, storia di disturbi psicopatologici e caratteristiche legate al temperamento del figlio che potrebbe risultare difficile da gestire perché particolarmente vivace o bisognoso di cure e attenzioni particolari“.
Cosa accade dopo l’uccisione nella mente dell’omicida?
“In questi casi bisogna distinguere tra l’atto omicida premeditato, come sembrerebbe essere quello del caso di Catania, e il figlicidio avvenuto in preda a un raptus frutto di una reazione impulsiva a urla o pianti del bambino. In quest’ultimo caso, l’uccisione del figlio non è un atto premeditato ma rappresenta piuttosto il punto di arrivo di un’escalation emotiva tipica di contesti maltrattanti.
Sia che si tratti di un atto premeditato che impulsivo, la donna che uccide il proprio figlio dovrà affrontare la fase di realizzazione del delitto commesso e le reazioni sono le più svariate: negazione dell’evento, dissociazione emotiva, o al contrario rabbia, sensi di colpa e disperazione che possono sfociare anche in atti autolesionistici fino al tentato suicidio.
Queste donne necessitano di un lavoro di riabilitazione particolarmente complesso. Nota è l’esperienza di Castiglione delle Stiviere, una Rems (residenza per l’esecuzione delle misure di sicurezza) che ospita 20 donne che hanno ucciso i propri figli e sono state giudicate incapaci di intendere e di volere.
In queste strutture, le donne che si sono macchiate del terribile delitto dell’infanticidio compiono un percorso riabilitativo che le porta a prendere coscienza dell’atto commesso e ad affrontare i vissuti psicologici che scaturiscono da tale consapevolezza. È fondamentale infatti ricordare che nella quasi totalità dei casi questi delitti sono frutto di condizioni psicopatologiche serie che necessitano di interventi specialistici importanti“.
Come andrebbero vissute le separazioni quando di mezzo ci sono anche figli?
“In caso di separazioni conflittuali, è importante che la famiglia non venga lasciata sola e che possa contare su un’adeguata rete di supporto emotivo e sociale, soprattutto per tutelare i figli che sono sempre la parte lesa in queste situazioni familiari.
È importante, in particolare, individuare sin da subito le situazioni a rischio attraverso un intenso lavoro di screening che va fatto sin dalle prime fasi della gravidanza e poi nel post-partum in modo da intercettare condizioni di disagio che potrebbero evolvere in eventi tragici come quello di Catania.
Per questo motivo, è fondamentale sensibilizzare le istituzioni sull’importanza di tutelare la salute mentale dei genitori, e delle madri in particolare, sin dalla gravidanza e di mettere in atto interventi di supporto psico-sociale nelle situazioni più difficili e a rischio“.