CATANIA – Oggi è l’8 marzo, la giornata internazionale della donna. Facciamo attenzione, giornata, non festa, perché da festeggiare c’è ben poco.
A partire dal cosiddetto gender pay gup, cioè la differenza tra la retribuzione maschile e quella femminile che, secondo i dati della società di consulenze Korn Ferry Hay Group è, al 2015, pari al 18%: parafrasato, considerando vari fattori (come per esempio il fatto che le donne svolgono lavori meno retribuiti) una donna guadagna mediamente il 18% in meno di un uomo. Purtroppo poi, salari a parte, c’è sempre il tristemente attuale tema della violenza, con i centri antiviolenza che hanno sempre più lavoro da svolgere.
Ed è da qui che vogliamo partire, infatti stamattina Catania vivrà l’8 marzo in due momenti diversi. Il primo sarà un sit-in davanti al tribunale, a partire dalle 10; il secondo invece un corteo, che prenderà il via da Piazza Dante alle 18.30 per terminare poi a piazza Università dove ci saranno proiezioni e spettacoli.
Allo sciopero di oggi si ricollega il movimento “Non una di meno Catania”, a cui aderiscono Thamaia Onlus, Lila, Chiese valdesi e battiste, Queers, Rebeldesse, Comitato san berillo, Cobas, Usb, Area sinistre sindacali cgil, Coordinamento studentesco, RivoltaPagina, Genus, centro studi di genere Università di Catania e Sen. Abbiamo così deciso di intervistare Anna Agosta, operatrice di Thamaia Onlus.
Leggendo gli otto punti dello sciopero globale delle donne salta agli occhi un’affermazione che potrebbe suonare insolita: “Scioperiamo contro la trasformazione dei centri antiviolenza in servizi assistenziali“. Perché?
“Il movimento non una di meno nasce dall’esigenza di confrontarsi e mettere in condivisione diverse pratiche di lotta e di contrasto alla violenza maschile contro le donne. Non una di meno affronta il tema della violenza in maniera multidimensionale e strutturale, prendendo in considerazioni vari piani da quello sanitario a quelle giuridico a quello del lavoro e welfare a quello specifico dei centri antiviolenza, che ci riguarda direttamente. L’obiettivo finale è quello di redigere un piano antiviolenza femminista che parta dal basso, un progetto in cui siano le donne le protagoniste della scrittura. Si sono costituiti dei tavoli tematici, 8 per la precisione, e da quello relativo ai percorsi di fuori uscita dalla violenza è emerso che i centri antiviolenza devono essere luoghi dove lavorano donne, con un approccio femminista e laico, gestiti dalle donne e non dalle istituzioni. Istituzionalizzare i centri significherebbe perdere 30 anni di saperi, esperienze e pratiche che differenziano i centri dagli altri servizi e il rispetto dell’autodeterminazione della donna e quindi della sua volontà e della sua autonomia. I centri antiviolenza non possono essere ridotti a meri servizi assistenziali. L’istituzionalizzazione inoltre non riconoscerebbe la figura cardine dei centri antiviolenza che è quella dell‘operatrice d’accoglienza, figura cardine la cui specificità è caratterizzata dalla competenza professionale e dall’impegno politico“.
Istituzionalizzando però, si presume, avreste degli aiuti economici, no?
“Si, l’istituzionalizzazione probabilmente potrebbe assicurare il sostegno economico delle attività dei centri, ma di che tipo di centri? Cosa accadrebbe ai centri antiviolenza nati dall’esperienza femminista?“.
Ma, attualmente, non ricevete nessun sussidio da enti pubblici? Regione, Provincia, Comune, Stato o chicchessia?
“No, assolutamente no. Viviamo di progettazione e volontariato. Viviamo nell’assoluta precarietà. Con questa protesta chiediamo che la violenza sulle donne non venga trattata come un fenomeno emergenziale, ma come un fenomeno strutturale che pertanto va contrastato attraverso politiche sistematiche e non emergenziali“.
Abbiamo saputo che la scelta di scioperare l’8 è stata molto combattuta perché, nei fatti, non potrete dare aiuto per un giorno. Com’è maturata questa decisione?
“Si, giorno 8 marzo il centro antiviolenza Thamaia rimarrà chiuso. In 15 anni di attività non era mai accaduto, anche nei momenti più difficili abbiamo sempre garantito il servizio per non penalizzare le donne che del centro hanno bisogno. Questa volta, aderendo allo sciopero globale delle donne riteniamo che sia doveroso fermarci in quanto donne. Se non valiamo ci fermiamo. Ci fermiamo per noi donne di Thamaia e per le donne che si rivolgono al centro e per tutte le donne in generale, per quelle consapevoli e per quelle che ancora non lo sono. Ci fermiamo per i diritti delle donne.
Abbiamo deciso di spostare la nostra protesta dinnanzi al Tribunale, luogo simbolo della lotta femminista ma anche luogo in cui le donne affrontano uno dei passaggi fondamentali e più dolorosi del loro percorso di fuori uscita dalla violenza“.
Domanda da un milione di dollari: per lei cos’è il femminismo?
“Il femminismo è una pratica politica, è una visione del mondo è una modalità di stare al mondo. Essere femminista per me significa valorizzare le differenze tra uomo e donna considerandoli uguali, con uguali diritti e possibilità”.
Qual è, se c’è, la sua più grande soddisfazione da quando fa questo mestiere?
“La mia più grande soddisfazione da quando lavoro al centro antiviolenza è stata quella della riscoperta del femminismo, e soprattutto quella di avere la consapevolezza di far parte di un progetto importante che intende promuovere un cambiamento culturale attraverso il sostegno delle donne che lottano contro la violenza“.