L’anarchia del dolore. Catania è un cimitero diffuso, altarini e lapidi ovunque

L’anarchia del dolore. Catania è un cimitero diffuso, altarini e lapidi ovunque

CATANIA – Dolore ovunque. Urlato. Cristallizzato. Esibito. Catania è anche questo. È la città del dolore anarchico. Del lutto imposto. Io soffro e tu, tu che passi, devi saperlo. Adesso sai della mia sofferenza, adesso devi condividere, il mio peso è un po’ anche il tuo, fa un po’ meno male. Il dolore non è un fatto privato. Il dolore è un’ingiustizia che tu, tu catanese, che tu, tu città intera, devi sopportare con me. Il lutto è un sudario che deve avvolgere tutti, è un omaggio che deve essere reso da tutti. I nostri morti sono i vostri.

lapide-porto1Catania sta assumendo sempre più l’aspetto di un cimitero diffuso. Diffuso ovunque, ben oltre il perimetro riservato alle sepolture, alla memoria, al passaggio verso quel che si spera esista, foss’anche quel “Panta chorei”, quel “Tutto danza” di Eraclito.

Il fenomeno degli oggetti commemorativi che appaiono improvvisamente ovunque, ovunque la morte sia giunta in sella ad una moto o a bordo di una vettura, sembra essere sempre più fuori controllo. La discrezione di un segno che una volta contraddistingueva una consuetudine accettata dalle istituzioni non si sa per quale distorta, arcaica interpretazione della pietà ha ormai lasciato il posto a vere stazioni della sofferenza.

Ed anche chi è giunto a Catania da lontano ritiene che si possa fare, che sia giusto farlo. Così come dimostra quanto affisso dai familiari di una giovane coppia mauriziana vittima di un incidente stradale sulla circonvallazione.

 

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Dov’è stato lo schianto sei, figlia mia, figlio mio, madre mia, padre mio, fidanzata mia, fidanzato mio, sposa mia, sposo mio, amica mio, amico mio. Dov’è stata eseguita la condanna dal destino siete ancora vivi, sorelle mie, fratelli miei. È così che è? È così che deve essere? È per questo che qui c’è un altarino? Sì, su un marciapiede qualcuno ha eretto un altarino, con tanto di tanica per l’acqua da dare ai fiori.

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È per questo che si trasforma un albero in un mausoleo? La sua aiuola seminata e incorniciata da mattoni forati fissati da un parente della vittima?

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È per questo che qui è stata poggiata una targa con accanto un orsacchiotto a fare da eterno conforto? 

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È per questo che le lapidi sono inchiodate così come si fa al cimitero, ma sul muro di una pubblica via?

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È per questo che un gruppo di biker ha eretto dove il traffico continua a scorrere una stele con tanto di vasi traboccanti fiori per l’amico adesso sulle piste celesti dei centauri?

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E quel cuore? Quella lapide a forma di cuore sulla corteccia di un albero della circonvallazione, la croce intagliata sul legno, è per questo che sta lì?

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Quel cuore è di marmo. Non potrà battere. Nulla è più. Non in quel luogo. Ed il dolore dovrebbe essere un fatto privato. O da condividere con chi lo desidera. Così alla violenza del distacco si aggiunge la violenza del tributo. E non si elabora. Bisognerebbe esorcizzare il punto in cui l’inferno della quotidiana lotta con l’addio, con l’elaborazione del lutto ha spalancato una delle sue bocche. Anche per questo esistono i cimiteri, per dare un soffice cuscino alla memoria, per diradare la nebbia fatta alzare dalla morte, per disciplinare il disordine che un fatto imprevisto, innaccettabile provoca su un percorso che non avremmo mai immaginato così d’un tratto irto, faticoso, devastante.

Il fenomeno funereo catanese è un sintomo. Il sintomo di un malessere che ha radici profonde. È una città che non è educata al dolore perché chi la amministra non è un educatore. L’anarchia del dolore è una delle conseguenze. L’utilizzo degli spazi pubblici per farne quel che si vuole, reputando di avere il potere di farlo perché derubati di parte della nostra esistenza intima, è possibile perché un’ammistrazione senza regole non ispira rispetto delle regole. Tantomeno può insegnare il valore della convivenza. E la dignità del ricordo.

Alessandro Sofia