CATANIA – Come si mette a tacere un uomo ribelle votato alla verità, che in una città silenziosa e sottomessa alla mafia perfetta (poco appariscente e molto ben ammanicata) racconta la realtà che nessuno vuole vedere? Con cinque colpi di pistola alla nuca, quelli esplosi con una calibro 7,65 la sera del 5 gennaio 1984 contro Giuseppe Fava. Stava andando a prendere al Teatro Verga la nipotina che recitava in “Pensaci, Giacomino!”. Aveva appena parcheggiato la sua Renault 5 in via dello Stadio. Non fece nemmeno in tempo a scendere dall’auto, forse non fece nemmeno in tempo a capire che stava morendo.
Giuseppe Fava e Catania
Giornalista, scrittore, saggista, sceneggiatore, drammaturgo, presentatore radiofonico e pittore. Sono state numerose le passioni che hanno infiammato la vita di Giuseppe Fava. La più grande di tutte, quella che ha fatto da perno alla sua esistenza, è stata la verità. Un dogma da inseguire, scoprire e raccontare. Con tutti i mezzi a disposizione, usando ogni chiave possibile.
Era nato a Palazzolo Acreide (il 15 settembre 1925) ma Catania, bella e spudorata, era diventata la sua città. Quella in cui si era laureato in Giurisprudenza e in cui aveva mosso i primi passi nel mondo del giornalismo, diventando professionista nel 1952.
Una città che ha saputo leggere e analizzare fin nel profondo del suo essere. In un documentario Rai del 1967 Giuseppe Fava descrive così Catania e i suoi cittadini:
“Ritengo che i catanesi siano una popolazione che non assomiglia a nessun’altra, ha pregi e difetti che sono suoi soltanto. Mentre le altre popolazioni del Sud guardano ai fatti della vita in maniera drammatica, il catanese lo fa in maniera ironica, con molto umorismo. I difetti del catanese sono molti, ma ha una virtù che ritengo lo riscatti da tutti i suoi difetti: ha il piacere di vivere, è contento di essere vivo.
L’egoismo, l’avidità e il piacere di vivere del catanese si trasformano in una volontà di lavoro così forsennata, in un piacere di guadagnare e spendere denaro così costante che rende Catania una città che cresce continuamente. […] È la città dove si costruisce più disordinatamente ma più in fretta che altrove. Ha più automobili, più night. Le ragazze catanesi sono le più vivaci, le più divertenti. […] Catania è all’avanguardia nel Sud pur trascinandosi appresso tutti i difetti”.
Le inchieste giornalistiche di Giuseppe Fava
E i difetti della città del Liotro e della Sicilia Giuseppe Fava li conosceva bene. E li raccontava con cura nelle sue inchieste giornalistiche, quelle scritte per “Espresso sera”, “La Sicilia” e per “Il Giornale del Sud”, il quotidiano che viene chiamato a dirigere nel 1980. La redazione è composta per lo più da ventenni alle prime armi, ma basta a dare vita a un giornale coraggioso, che racconta gli affari delle famiglie mafiose e fa luce sui rapporti di Cosa nostra col mondo degli affari, dell’imprenditoria e della politica. Una voce che squarcia il silenzio e la calma irreale del capoluogo etneo.
È dalle colonne del “Giornale del Sud” che Giuseppe Fava stila il proprio manifesto programmatico. Lo fa attraverso un articolo pubblicato l’11 ottobre 1981, “Lo spirito di un giornale”. Parole care a ogni cronista che intenda vivere nel modo più profondo l’alta missione del giornalismo: svelare e informare.
“Lo spirito di un giornale”
Scrive Fava: “Io ho un concetto etico del giornalismo. Ritengo infatti che in una società democratica e libera quale dovrebbe essere quella italiana, il giornalismo rappresenti la forza essenziale della società. Un giornalismo fatto di verità impedisce molte corruzioni, frena la violenza la criminalità, accelera le opere pubbliche indispensabili, pretende il funzionamento dei servizi sociali, tiene continuamente allerta le forze dell’ordine, sollecita la costante attenzione della giustizia, impone ai politici il buon governo. […] Un giornalista incapace – per vigliaccheria o calcolo – della verità si porta sulla coscienza tutti i dolori umani che avrebbe potuto evitare, e le sofferenze. le sopraffazioni. le corruzioni, le violenze che non è stato capace di combattere. Il suo stesso fallimento! […] Dove c’è verità, si può realizzare giustizia e difendere la libertà!”.
Articolo che rappresentò, però, il punto di non ritorno nei contrasti ormai apertamente evidenti con gli editori del giornale (che intrattenevano rapporti con il boss Nitto Santapaola). Fava viene licenziato e poco dopo il giornale cessa di esistere per volontà dei suoi stessi proprietari (gli stessi che avevano imposto il controllo e la censura degli articoli e che avevano fatto piazzare ed esplodere all’entrata secondaria della redazione una bomba carta).
“I Siciliani”
È in quel momento che Fava intraprende una nuova e travolgente esperienza, quella de “I Siciliani“, il mensile fondato dal giornalista per scrivere ciò che gli altri non volevano scrivere.
Il primo numero esce il 22 dicembre 1982 con un’inchiesta intitolata: “I quattro cavalieri dell’apocalisse mafiosa“. L’articolo è incentrato sulle attività dei quattro maggiori imprenditori catanesi: Mario Rendo, Gaetano Graci, Carmelo Costanzo e Francesco Finocchiaro. Frutto di due anni di ricerche e investigazioni del giornalista palazzolese, Fava accusa il mondo imprenditoriale e politico della città di essere legato con la mafia catanese e in particolare con Nitto Santapaola (il boss che nel 2003 è stato condannato dalla Cassazione come mandate dell’omicidio in via dello Stadio).
L’ultima intervista
“Insofferente, maleducato verso il potere”, come lo definisce il giornalista Attilio Bolzoni, Giuseppe Fava parla senza mezze misure. Lo fa anche il 28 dicembre 1983, quando è ospite della trasmissione di Enzo Biagi “Filmstory”. Siede accanto a Nando Dalla Chiesa. È l’ultima intervista rilasciata prima del suo assassinio.
Le parole che pronuncia anche in questa occasione sono nette e incisive: “Vorrei che gli italiani sapessero che non è vero che i siciliani sono mafiosi. I siciliani lottano da secoli contro la mafia. I mafiosi stanno in parlamento, i mafiosi a volte sono ministri, i mafiosi sono banchieri, sono quelli che in questo momento sono al vertice della nazione. Il problema della mafia […] rischia di portare alla rovina e al decadimento culturale e definitivo l’Italia.
Nella mafia moderna non ci sono padrini, ci sono grandi vecchi i quali si servono della mafia per accrescere le loro ricchezze. […] L’uomo politico non cerca attraverso la mafia soltanto il potere, cerca anche la sua ricchezza personale, perché è dalla ricchezza personale che deriva il potere, che ti permette di avere sempre quei 150-200mila voti di preferenza. Perché purtroppo la struttura della nostra civiltà politica è questa: chi non ha soldi, 150mila voti di preferenza non riuscirà ad averli mai. I mafiosi non sono quelli che ammazzano, quelli sono gli esecutori. […] Io ho visto molti funerali di Stato. Ora dico una cosa di cui solo io sono convinto, che quindi può anche non essere vera, ma molto spesso gli assassini erano sul palco delle autorità“.
Omicidio di mafia
Pochi giorni più tardi il suo non fu un funerale di Stato. Era rimasto solo Fava, come tutti gli uomini che affrontano la mafia di petto. Che pronuncia la parola “mafia” senza tentennamenti, senza paura, ma con la durezza e la fermezza di chi ama la giustizia e la libertà.
Mafia, quella che non esisteva a Catania, come si premurava di precisare l’allora sindaco Angelo Munzone. Che appoggiava la tesi che per prima prese piede, quella del delitto passionale, così come era stato etichettato dalla stampa e dalla polizia. O un assassinio per motivi economici, date le difficoltà in cui versava la sua rivista. Solo beceri tentativi di depistaggio.
Perché Giuseppe Fava è stato ucciso perché scriveva, raccontava la realtà e cercava la verità. È stato assassinato perché faceva il giornalista. E perché, come ha detto Riccardo Orioles (uno dei suoi ragazzi de “I Siciliani“), “uno così non si poteva lasciare vivere”.
Fonte foto: Twitter – Sebastiano Ardita