CATANIA – Da qualche mese a questa parte a Catania si è abbattuto un terremoto su un’altra società che per oltre cinquant’anni ha contribuito alla crescita economica del territorio. Si tratta della Cipi, azienda produttrice di gadget pubblicitari fondata nel 1964 dall’imprenditore catanese Rosario Circo. A partire dallo scorso mese di gennaio la proprietà, che ha la propria sede commerciale a Milano, ha manifestato la volontà di chiudere lo stabilimento del capoluogo etneo per spostare la propria produzione all’estero.
Motivo di questa decisione il contenimento dei costi, per un colosso che negli anni è passato, come un ping pong, dalla famiglia Circo al gruppo Seat Pagine Gialle e viceversa, fino a tornare definitivamente nel 2014 ai fondatori. Adesso i vertici delle sigle sindacali sono indignati perché in ballo c’è il futuro di 50 dipendenti e la procedura di chiusura dell’azienda, dalla durata di 70 giorni, volge al termine. Tutto questo ha portato allo sciopero di giovedì davanti allo stabilimento e a un sit-in venerdì davanti al Palazzo degli Elefanti in piazza Duomo. Sabato, infine, la proprietà ha comunicato che la sua situazione economica attuale non è buona.
Le lettere di licenziamento da parte dei vertici dell’azienda sembrano ormai imminenti e la recente richiesta dei lavoratori alla proprietà di una proroga di 15-20 giorni per attivare la cassa integrazione non è stata accolta. Ma le alternative alla chiusura totale, come la cessione del ramo d’azienda o la creazione di una cooperativa, non mancano. Per scoprire meglio gli scenari futuri della vertenza dei dipendenti abbiamo sentito il segretario regionale della Fistel Cisl, Antonio D’Amico, che ci ha svelato anche alcune novità riguardo alle ultime vicende.
“Lo sciopero è partito giovedì – spiega D’Amico – e i lavoratori non arriveranno fino a fine procedura. Dopo la trattativa di mercoledì al palazzo Esa i sindacati hanno chiesto all’azienda la proroga per attivare la cassa integrazione con 20 giorni di tempo, ma la procedura volge al termine e ci sentiamo presi in giro, perché in 4 giorni è quasi impossibile chiedere un incontro al Ministero del Lavoro. E la proprietà, guarda caso, si è aperta a noi solo ora. Se ci daranno la cassa integrazione, in un anno noi cercheremo di trovare le soluzioni per dare continuità alla sede di Catania, o con un nuovo acquirente o formando una cooperativa Catania-Milano. Il risultato dell’incontro di mercoledì è stato negativo, mentre durante il sit-in di venerdì il sindaco ci ha permesso di fare una richiesta al Ministero del Lavoro per un incontro. Ma per arrivare a questo ci vuole la revoca dei licenziamenti e della procedura di chiusura dell’attività”.
Quel che colpisce è il comportamento ambiguo dell’azienda, dietro il quale ci sarebbero delle motivazioni particolari. In caso di licenziamento il sindacato farà di tutto per far valere i diritti dei lavoratori.
“È palese la presa in giro dell’azienda – continua D’Amico -, anche perché non vogliono passare per quelli che chiudono la porta in faccia, ma noi comunque la richiesta al Ministero la mandiamo. Se ora ci arrivano le lettere di licenziamento, il Ministero non può farci nulla e noi invieremo i documenti alla Guardia di Finanza. All’azienda la sede di Catania non interessa più e vuole fare stampare gli ordini in giro per il mondo.”
La volontà di non mollare per dare continuità all’azienda, che ha deciso di chiudere nonostante un utile del 20%, c’è tutta e anche in questo senso non mancano le iniziative.
“Noi abbiamo proposto al Ministero per lo Sviluppo Economico e alla Regione Siciliana – conclude D’Amico – di abbassare il costo del lavoro, la cessione del ramo d’azienda e la cooperativa dei lavoratori, ma la proprietà dice che la sede di Milano deve restare commerciale e non operativa. Un’altra presa in giro. Spero che l’azienda ci ripensi, perché tutto è legato al ritiro o meno dei licenziamenti. La lettera di convocazione del Ministero del Lavoro può arrivare, ma non sappiamo quando. L’azienda non vuole anticipare la cassa integrazione e per sei mesi i lavoratori non prenderanno stipendio. Fino ai primi di gennaio c’era un utile quasi del 20 %, un’altra cosa assurda, e c’è stata una cattiva organizzazione del lavoro. La proprietà ricatta le istituzioni: non si può continuare così“.