ITALIA – I bambini sono una risorsa e una ricchezza, ma richiedono estrema cura ed attenzione. Vanno seguiti al meglio, soprattutto dal punto di vista sanitario.
E a Catania i pediatri sono veramente e drammaticamente pochissimi. Un dato oggettivo che non si può negare e che rende difficoltoso lo svolgimento in serenità del lavoro.
Una carenza quasi cronica, frutto di scelte sindacali sbagliate e di contratti nazionali che, anziché aumentare i posti e inserire giovani, per “tamponare” il problema, invece, continuano a ritenere una “vittoria” incrementare il numero degli assistiti per singolo pediatra, che si ritrova a gestire una mole di lavoro insostenibile.
A questo si associa la “paura” del genitore, che pretende la precedenza, che vuole che il figlio sia visitato nel più breve tempo possibile ma, il più delle volte, si tratta solo di “preoccupazioni” perché i piccoli non stanno così male da richiedere un intervento urgente.
Inoltre, diventa impossibile inserire ognuno di loro per la visita – rispettando le necessità di tutte le famiglie -, dato che il pediatra dovrebbe lavorare ininterrottamente con oltre 100 bambini al giorno, per “accontentare” i bisogni dei genitori. Situazione da escludere per motivazioni logistiche e anche di tempo effettivo a disposizione.
Questo comporta che tutta la categoria dei pediatri è sotto pressione, con orari massacranti fuori da qualsiasi rigor di logica, sovraccarico di lavoro (nella maggior parte dei casi con oltre mille piccoli pazienti per singolo medico).
Si assiste a un meccanismo assurdo che comporta che i pediatri si sforzano per il miglioramento dell’offerta sanitaria, ma poi i genitori portano il bambino al Pronto Soccorso Pediatrico per ulteriori riscontri o perché hanno “urgenza” e il risultato è che, in caso di problemi seri, poi ci si trova davanti a tantissimi piccoli pazienti che vanno in ospedale come se andassero all’ambulatorio del pediatra di famiglia.
Ai microfoni di NewSicilia è intervenuta la pediatra catanese Maria Anna Libranti, per fare il punto della situazione, in rappresentanza della categoria che sta vivendo un disagio collettivo e che, dunque, lancia un vero e proprio sos.
La dottoressa opera come pediatra di famiglia da più di 25 anni, animatore di formazione permanente in campo medico-sanitario sin dal 2002 e dallo stesso anno Consigliere dell’associazione culturale “Paidos”, rivolta alla formazione e all’aggiornamento dei pediatri: redattrice dell’omonima rivista trimestrale da circa un ventennio. Dal 2021 è anche membro del “Comitato etico Catania 2” Arnas Garibaldi.
“Sta diventando avvilente e svilente il nostro lavoro. Ci ritroviamo a gestire – come un’emergenza assoluta – anche semplici raffreddori. Non si è capito che la figura del pediatra avrebbe altre cose su cui focalizzarsi, decisamente più importanti. Scarseggia il tempo per il self help diagnostico, per il counselling su i disturbi comportamentali e alimentari, per intercettare i disagi e i bisogni della famiglia, tutto sulla scia della ‘prevenzione’ che per noi pediatri è essenziale“, esordisce la nostra intervistata.
“A Catania, come in altre ASP della Sicilia, si vive una situazione di totale scollamento tra i pediatri del territorio e i distretti sanitari. I distretti, in questi ultimi anni, hanno subìto un progressivo e inesorabile depauperamento del personale che, nel corso degli anni non è mai stato sostituito, al punto che certi servizi cessano temporaneamente se l’impiegato preposto si assenta e si sopprimono addirittura se va in pensione.
Manca il personale e non ci sono interlocutori neanche tra i funzionari. Appena sembra che qualcuno di loro abbia compreso le nostre ragioni e abbia una visione un po’ meno miope delle cose, ecco che va in pensione e si deve ricominciare da capo, con un incaricato improvvisato che non ha neanche preso le consegne da chi lo ha preceduto.
A livello regionale la situazione è analoga, con tempi di reazione da coma depassé. Insomma, uno spaccato disarmante della gattopardiana lentezza della burocrazia siciliana in cui ogni tanto si fa finta di cambiare qualcosa perché nulla cambi davvero nella sostanza”.
“La grave carenza di pediatri nel territorio è il frutto di un’atavica assenza di programmazione da parte delle aziende sanitarie e dell’assessorato regionale a cui va ad aggiungersi, negli ultimi anni, la stretta del numero dei medici determinata dal numero chiuso degli iscritti in medicina che ha portato a una situazione di sofferenza in tutto il territorio nazionale.
Anche l’attività sindacale degli ultimi vent’anni non è stata certo lungimirante, perché ha cercato di tutelare i propri iscritti impedendo l’inserimento di giovani colleghi nel territorio.
Tutto questo ha determinato la dispersione di migliaia di bambini che, pur di ricevere assistenza sanitaria, hanno riempito gli studi dei medici di famiglia. Una realtà penalizzante per i pediatri ma soprattutto per i piccoli pazienti così privati dell’assistenza del medico specialista.
Non dimentichiamoci che il ruolo del pediatra di famiglia è unico in Europa e ha caratteristiche peculiari che lo rendono un modello di assistenza per gli altri paesi: non seguiamo solo bambini malati in acuto o cronici ma anche bambini sani per intercettare, prevenire e correggere, in ogni tappa della crescita, quei fattori di rischio che se trascurati possono interferire con il loro sano sviluppo psico-fisico“.
“Per cercare di tamponare questa situazione di grave carenza assistenziale l’ASP, facendosi scudo su leggi e circolari assessoriali che avrebbero potuto e dovuto essere modificate e adattate alle nuove e urgenti necessità, ha preferito aumentare il numero degli assistiti ai pediatri già presenti sul territorio piuttosto che favorire l’ingresso di giovani colleghi.
Tutto ciò si inserisce in un clima di incomprensibile compiacimento tra i funzionari di parte pubblica e i rappresentati dei sindacati di maggioranza.
Dico incomprensibile perché i sindacalisti sono anche pediatri di famiglia che dovrebbero sapere perfettamente quanto sia già fin troppo impegnativo lavorare bene con 800 bambini.
Ritenere un ‘successo’ aver aumentato il nostro massimale a 1.000 assistiti è inaudito, soprattutto alla luce delle condizioni in cui siamo costretti a lavorare nella nostra Regione e del carico burocratico crescente di questi ultimi anni.
Piuttosto ci si sarebbe dovuti battere per alleggerire il carico e ottenere gli incentivi necessari a migliorare la nostra opera assistenziale”.
“La gestione dell’ambulatorio con numeri tanto alti (alcuni pediatri hanno in elenco, loro malgrado, 1.200-1.300 bambini) è davvero complessa e si rischia di compromettere sia la qualità dell’assistenza, che la qualità della propria vita privata.
Appena lo scorso lunedì ho lavorato per 10 ore di fila, quando va bene le ore giornaliere dedicate esclusivamente alle visite non sono mai meno di 7-8. A queste vanno aggiunte le ore passate al computer per rispondere alla pioggia di mail inviate dai genitori che desiderano un consiglio o una rassicurazione e quelle trascorse a inviare richieste di farmaci ed esami, certificati scolastici, congedi parentali, certificati Inps, notifiche di Covid o altre malattie infettive etc.
Non dimentichiamoci della consulenza telefonica che, nell’immaginario dei genitori, deve essere perpetua. Il bravo pediatra non avrebbe diritto a una vita privata e dovrebbe essere disponibile ventiquattro ore su ventiquattro.
Del resto, come si impara nelle temibilissime chat delle mamme, la bravura di un pediatra non si misura sulle competenze ma sulla sua destrezza a digitare messaggi via WhatsApp, ancora più apprezzati se inviati sabato o domenica”.
“Non vi è dubbio che la situazione di carenza dei pediatri mette in crisi le famiglie che sono private del diritto alla ‘libera scelta’ e si ritrovano con i piccoli a volte già improvvidamente iscritti dal medico generico, oppure sono costrette a doversi ‘accontentare’ dell’unico pediatra disponibile con il quale potrebbero non entrare in sintonia.
Chi può si rivolge al professionista che opera privatamente. Questa attività risulta crescente in questi anni perché risponde anche all’esigenza di cercare una seconda opinione (a volte anche una terza o una quarta) per placare l’ansia genitoriale, non sempre motivata”.
“Sono molti gli effetti negativi dell’ansia genitoriale sui piccoli pazienti e il Covid ha contribuito a esacerbare una situazione già grave in partenza. Non è da sottovalutare anche la massiccia attività di (dis)informazione pseudo-scientifica sui social media che ha permesso a molti genitori, specie negli anni della pandemia, di autoproclamarsi laureati all’università di Facebook.
Le squallide diatribe tra medici vax e no- vax hanno poi contribuito a compromettere ulteriormente il rapporto di fiducia medico-paziente.
Altro fattore non irrilevante è stato l’isolamento dei nuclei familiari sempre più piccoli e che risentono da anni dell’assenza benefica dei nonni, portatori di quel bagaglio di saggezza ed esperienza utile a dissipare fantasmi e paure inesistenti.
I nostri studi, come i reparti di emergenza e i punti di primo intervento pediatrico, sono intasati quotidianamente dall’acuto banale. Il naso che cola è considerato un segno di allarme che richiederebbe, a dire di ogni mamma, un controllo urgente.
Se al naso che cola (ricordiamoci che se si chiamano ‘mocciosi’ ci sarà pure un motivo!) dovesse aggiungersi una febbre che supera i 38 °C, ci sarebbero ottime possibilità che lo stesso mocciosetto venga visitato di mattina dal pediatra di famiglia, nel pomeriggio dal pediatra privato e di notte anche dal collega del Pronto Soccorso Pediatrico.
Il ‘medical shopping‘ è la pratica più abusata tra i genitori e sottrae energie e risorse che potrebbero più correttamente essere rivolte a chi del medico ha realmente bisogno!
Frutto di queste incontrollabili paure, ma anche della cattiva educazione, diffusa più del morbillo prima dell’avvento del vaccino, sono le denunce minacciate e messe in atto per ogni futile motivo che tolgono dignità al nostro lavoro e spingono in maniera comprensibile i medici di emergenza ad agire secondo i criteri della medicina difensiva, più che secondo quelli della ‘buona pratica’ e i pediatri di famiglia a cercare la pensione anticipata per evitare il burnout“.
“Certamente non è aumentando l’offerta che si riduce la domanda.
Il genitore ansioso dovrebbe essere prima educato, poi contenuto e infine tassato se utilizzasse malamente le risorse di tutti: i codici bianchi dovrebbero pagare un ticket contrariamente a quanto ritenuto dai politici.
L’educazione dovrebbe cominciare dalla scuola e poi dai corsi alla genitorialità, dove la figura del pediatra non dovrebbe mai mancare.
Ai pediatri di famiglia dovrebbero essere date le risorse per essere davvero vicini alle famiglie e ai loro bisogni.
Per fare questo si dovrebbe agire applicando davvero il contratto che, sia a livello regionale che a livello provinciale, è scandalosamente disatteso, infatti la professione del Pediatra di famiglia in Lombardia o in Toscana è molto diversa.
Nelle Regioni del Nord Italia a tutti i pediatri di famiglia vengono riconosciuti incentivi per associarsi, per dotarsi di collaboratore di studio e di infermiera. Questo permette ai colleghi di formare associazioni di pediatria di gruppo (più colleghi riuniti in uno stesso grande studio) dove è più facile gestire massimali più alti.
In questi studi ci sono più collaboratori che si occupano di organizzazione di studio e burocrazia, infermieri che gestiscono le piccole emergenze e si occupano di vaccinazioni obbligatorie e facoltative, lasciando così ai pediatri un tempo di qualità da dedicare al bambino e alla famiglia che gli ruota intorno, ricordiamoci che siamo appunto ‘pediatri di famiglia’.
Nella nostra Regione la forma associativa più frequente è quella di pediatria in associazione (pediatri coordinati per assicurare continuità assistenziale ma ciascuno nei propri ambulatori) e gli incentivi per questa forma di associazione non vengono riconosciuti a tutti quelli che vi partecipano (per una riferita mancanza di fondi vi sono colleghi che non percepiscono da anni questa indennità).
L’incentivo per il collaboratore di studio è corrisposto – in maniera tanto iniqua da essere probabilmente incostituzionale – solo a un 20% di pediatri mentre tutti gli altri sono costretti a provvedere a proprie spese. Credo che nessuno percepisca l’indennità per l’assistenza infermieristica.
Anche quest’anno dunque, io che credo fermamente nella validità della vaccinazione antinfluenzale e desidero proteggere i miei assistiti, pagherò lo straordinario alla mia segretaria per la quale non ottengo nessun incentivo da 27 anni, farò un paio di pomeriggi extra per riuscire a conciliare la vaccinazione con le visite ordinarie e se vorrò avvalermi dell’aiuto di una infermiera dovrò pagarla a mie spese: come biasimare i colleghi che si rifiutano di praticare i vaccini a queste condizioni?”.
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