GELA – I suoi occhi parlano, raccontano una vita stravolta da una tragedia “quasi” preannunciata. Mentre cerca di mettere insieme tutte le tesserine del puzzle e ricostruire la sua storia, Antonio Giudice, imprenditore edile di Gela, è un fiume in piena.
Due anni fa, era il 5 marzo, venne svegliato da poche parole che ancora oggi rimbombano nella sua mente come fosse ieri: “Hanno bruciato la macchina di papà”.
Nella notte, infatti, l’auto del padre di Antonio, impiegato comunale, venne incendiata ma il volto di colui che compì il gesto è tutt’ora ignoto e probabilmente lo rimarrà per sempre.
“Le indagini, ufficialmente, sono ancora in corso” afferma Antonio Giudice, e aggiunge “Quella notte, come sempre, le telecamere pubbliche non funzionavano. Gela è una città video sorvegliata solo apparentemente ma i fatti dicono tutt’altro”.
E forse, c’è da credergli… perché a quest’ora gli autori del gesto non sarebbero ancora liberi.
Le immagini di quella terribile giornata scorrono nella sua mente, istante dopo istante, attimo dopo attimo e tutte ad un tratto vengono raccontate attraverso le sue parole: “Fu una tragedia nella tragedia, perché mia madre dopo aver visto le fiamme avvolgere la macchina, fra la paura e lo sconforto morì a causa di un arresto cardiaco”.
Da quel giorno la vita di Antonio cambiò: il suo silenzio mentre lavorava a capo chino, sfamava la sua famiglia grazie alla sua azienda e camminava tra la sua gente in una città dai troppi misteri irrisolti, si è trasformato in rabbia… si è trasformato nel bisogno di urlare al mondo che a Gela c’è qualcosa che non va da troppo tempo ma nessuno parla.
“Da quindici anni ogni giorno, tutte le notti a Gela bruciano macchine. Abbiamo raggiunto il record di circa 300 auto l’anno. Può essere che i gelesi siano tutti cattiva gente? Mio padre è sempre stato un buon uomo, ai tempi aveva 83 anni. Non c’è un motivo per cui accade tutto questo”. E incalza “Sembra più che ci sia la volontà di lasciare che tutto scorra così, forse nella volontà di tenere sotto assedio la città e basta”.
Per qualche mese, dopo il corteo che lo stesso Giudice a pochi giorni dal tragico evento organizzò contro la mafia e a cui parteciparono ben 2.000 persone, Gela fu presidiata dalle forze dell’ordine e la situazione migliorò, ma poco dopo, afferma ancora l’imprenditore “Le forze in campo diminuirono e tutto tornò come prima. Solo la settimana scorsa sono saltate tre auto dietro il tribunale ma nessuno ne parla. Ormai sembra quasi normale; tutti sono rassegnati all’idea che non si possa cambiare più nulla”.
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Durante quel corteo contro la bestia nera chiamata “mafia”, lui era in prima fila e senza paura era pronto a sfidare mafiosi e malviventi guardandoli negli occhi mentre circolavano di notte per le strade di Gela… una città che rischia di implodere sommersa dalle ceneri di quei falò che nessuno vuole domare.
“Io mi sento abbandonato dalle istituzioni, questa è la verità”, dice Antonio Giudice che continua a battagliare anche se al momento ha pochi stimoli. Il suo, è un senso di solitudine che vive ormai da due anni. Sostiene che proprio le istituzioni tendano o vogliano sminuire il problema invece di portarlo alla ribalta in una terra che cerca disperatamente di alzare la china non trovando, però, la forza per continuare a lottare da sola, come spiega lo stesso Giudice in quest’intervista:
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Se da una parte è vero che al corteo parteciparono 2.000 persone per dire “no” alla mafia, è anche vero ci fu “molta gente che appena ci ha visto si è voltata, in segno di chiusura. Questa è una città che non mi ha dato nulla se non morte, fame e malattia. La mafia non è stata sconfitta. Ha solo cambiato volto, si è trasformata”.
Giorgia Mosca – Daniela Torrisi