Da Caltanissetta il primo reato di diffamazione via WhatsApp, lo stabilisce la Cassazione

Da Caltanissetta il primo reato di diffamazione via WhatsApp, lo stabilisce la Cassazione

CALTANISSETTA – La diffamazione è uno dei reati più comuni, ma allo stesso tempo più difficili da definire. D’altronde i confini che delimitano una semplice offesa dettata da un momento di rabbia o goliardica dalla volontà di “infangare” la reputazione di una persona “nemica” sono molto sottili. Il mondo in cui forse è più difficile operare per forze dell’ordine e giudici è sicuramente quello dei social.

Può essere infatti considerato diffamazione un insulto pubblicato su una storia (pubblicazioni comuni nelle piattaforme più usate e scaricate), senza citare la persona offesa ma comunque vista da almeno un centinaio di altri utenti? La risposta e sì e le motivazioni arrivano direttamente dallo Studio Cataldi e sono state lette dall’AGI.

D’altronde, se consideriamo solo l’aspetto giuridico, quello di diffamazione è un reato “consistente nel recare offesa all’altrui reputazione comunicando a due o più persone, a voce o per iscritto, e fuori della presenza della persona offesa, oppure diffondendo, per mezzo della stampa, notizie di fatti che possano comunque ledere o diminuire la stima morale o intellettuale o professionale che la persona gode nell’ambiente in cui vive” (si legge sulla Treccani).

Dunque, la Corte di Cassazione di Caltanissetta ha stabilito che scrivere frasi offensive dirette a una donna sul proprio stato di WhatsApp costituisce reato di diffamazione a causa della potenziale diffusività dello stato. La vicenda, che arriva direttamente dalla Sicilia, ha suscitato scalpore.

L’imputato d’altronde aveva presentato ricorso contro la sentenza di condanna della Corte d’Appello di Caltanissetta, sostenendo l’assenza della prova oltre ogni ragionevole dubbio che i messaggi fossero rivolti alla persona offesa e che potessero essere visti da tutti i suoi contatti nel telefono. Secondo la difesa, infatti, non tutti i contatti possono essere in possesso dell’app di messaggistica più famosa del mondo.

La replica dei giudici ha però “tagliato le gambe” alla tesi difensiva. Secondo le parole dei giudicanti, infatti, sarebbe stato sufficiente mandare un messaggio privato alla donna se l’imputato avesse voluto limitare la visione delle parole rivolte alla persona offesa.

Gli è quindi stata confermata la condanna a un’ammenda di 3mila euro, oltre che al pagamento delle spese legali.

Immagine di repertorio