Jobs Act: la nuova riforma del lavoro, in termini semplici

Tutti parlano di Jobs Act ma chi conosce davvero la materia?

A dispetto dell’origine decisamente poco anglosassone, è con questo rinomato termine inglese che in Italia viene definita la nuova normativa sulla riforma del lavoro. Stiamo parlando di una legge delega (cioè approvata dal Parlamento che delega, appunto, il governo a esercitare la funzione legislativa), che ha ottenuto carattere ufficiale da pochissimi mesi ma che ha creato un grande polverone mediatico già ai tempi della sua prima apparizione nel programma dell’allora nuovo governo presieduto dal premier Matteo Renzi.

Sin da subito, i membri del governo hanno parlato di un progetto che persegue il fine del “miglioramento generale della nostra economia e quindi il rilancio sul fronte europeo, nell’ambito della concorrenza con gli altri paesi, per snellire e velocizzare l’iter dei rapporti di lavoro”.

Altrettanto tempestive sono emerse varie opinioni sull’argomento. I personaggi della politica appartenenti alle diverse fazioni ideologiche hanno espresso il loro giudizio insieme con i singoli cittadini.

A tal proposito, chi sono i veri protagonisti del cambiamento se non i cittadini che devono conoscere la nuova struttura del sistema lavoro e quindi del loro futuro?

Ma soprattutto, al momento, chi può dire di conoscere davvero questo famigerato neonato Jobs Act?

A sciogliere i principali dubbi, per noi, è l’avvocato lavorista Paolo Cappellani dello studio legale Cappellani – Di Mauro.

Cosa si intende per Jobs Act? 

“È una legge delega e, come tale, dev’essere attuata con decreti legislativi ‘ad hoc’ e prevede tante aree di intervento. Al momento il governo ne ha previste quattro e completato un primo schema di decreto legislativo che diventerà operativo, dopo la pubblicazione in Gazzetta Ufficiale, i primi di marzo. Stiamo parlando di:

  1. Riforma degli ammortizzatori sociali (cassa integrazione, disoccupazione);
  2. nuovi contratti di lavoro;
  3. tutele sulla maternità e sui lavoratori (le attuali Aspi e Mini Aspi si  tramuteranno in Naspi);
  4. Un “nuovo sistema di tutele” sia per i lavoratori che per i datori di lavoro. Per i primi si parla di “tutele crescenti” cioè un nuovo istituto di conciliazione per la risoluzione stragiudiziale delle controversie sui licenziamenti illegittimi. In sostanza il datore di lavoro offre una somma predeterminata in modo certo al lavoratore (che con gli anni di anzianità aumenta) in cambio della rinuncia alla impugnazione del licenziamento, somma che per il lavoratore non rientra nel reddito imponibile ai fini fiscali. Per i secondi si parla di “garanzie processuali” in quanto i comportamenti delle aziende, nell’ambito dei rapporti di lavoro, hanno conseguenze meno restrittive.

Cosa si intende per “meno restrittive”?

“Quando si affronta il tema delle tutele crescenti, non si può prescindere dal trattare anche quello della reintegra nei posti di lavoro a seguito di licenziamento disciplinare. In virtù delle nuove normative, la possibilità di reintegro viene limitata. Per essere concreti, la differenza con la precedente legge Fornero del 2012, sta nel fatto che prima il lavoratore riotteneva il proprio posto nel momento in cui la motivazione del licenziamento veniva dichiarata illegittima. Ciò vuol dire che la linea di demarcazione tra quei tempi e il momento attuale, in cui entra in vigore il Jobs Act, è l’importanza della discrezionalità del giudice che oggi va perduta. Per porre un esempio pratico, prima la reintegra nel posto di lavoro avveniva quando il giudice accertava l’insussistenza materiale del motivo del licenziamento. Ma in quei casi i metri di paragone erano due: quello materiale e quello psicologico. Per tale ragione, mentre oggi il giudice deve solo accertare che un’eventuale ingiuria sia materialmente avvenuta o meno, prima bisognava valutare anche se il comportamento fosse legittimo o provocato“.

Per quanto concerne le assunzioni?

“Cambia poco. Questo governo ha emanato la legge 190 ‘di stabilità’ che sostituisce la precedente 407 grazie alla quale l’azienda che assumeva una persona che aveva conseguito due anni di disoccupazione, poteva ottenere l’esenzione contributiva (come per esempio quella sugli infortuni) per i 3 anni successivi. Oggi la 190 prevede un’agevolazione per la stipula non solo dei contratti che sono a tempo indeterminato sin da subito ma anche per quelli che vengono tramutati in un secondo momento. Si tratta di una riforma che ha come primo obiettivo quello di limitare la disoccupazione giovanile ma è legittimo chiedersi cosa accadrà a questi lavoratori assunti alla fine degli anni di agevolazione così come è altrettanto corretto rendersi conto che mentre in Italia solo il contratto a tempo indeterminato viene considerato quello che tutela realmente il cittadino in paesi come gli Stati Uniti, la Germania e l’Inghilterra, il contratto a tempo determinato è la regola”.

A chi critica il nuovo sistema parlando di “minori tutele per i lavoratori” lei cosa risponde?

“Probabilmente è vero ma, di contro, sono state introdotte norme che incentivano le assunzioni. Trovo che sia meglio lasciare le aziende libere di snellire il numero dei dipendenti in casi giustificati, in modo da concedere di respirare e guardare al futuro in maniera discrezionale. Forse adesso si sta cercando di riequilibrare l’ago della bilancia che finora ha peso troppo dalla parte dei lavoratori e c’è anche da dire che sono norme che riguardano solo il settore privato non anche quello pubblico“. 

E le tutele per la maternità?

“Il trattamento economico per congedo familiare viene esteso a tutte le categorie di lavoratrici autonome con rapporto continuativo con aziende, coordinati e anche ai casi di adozione oltre che alle vittime di violenza. In aggiunta i permessi per maternità vengono portati dai fino a 8 anni di vita del figlio ai 12 e sarà possibile tra le lavoratrici dipendenti la cessione dei permessi di riposo aggiuntivo“.

Cosa ci dice delle indennità per i lavoratori?

“Si è passati da Aspi a Naspi (Nuova Associazione Sociale per l’Impiego). Sarà unica per tutti e la durata sarà massimo del 50% delle attività che il lavoratore ha prestato e per cui è stato retribuito nell’ultimo quadriennio, togliendo i periodi in cui la persona ha già usufruito del sussidio di disoccupazione. Non c’è più differenziazione in base alla natura del rapporto di lavoro”.

Ultima domanda lei che è un conoscitore della materia come definirebbe questo Jobs Act?

“Considero questa riforma differente rispetto a quelle che l’hanno preceduta (come quella della scuola) perché in quel caso di trattava di normative che si adattavano al cambiamento dei tempi. Ho l’impressione che il governo operi allo stesso modo di quei cantautori a cui viene in mente un titolo che funziona e poi si occupano solo di costruire l’intera canzone in base al nome che gli era tanto piaciuto anche se ci sono dei meccanismi che musicalmente non funzionano”.

Vittoria Marletta

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