CANICATTÌ – “Cosa vi ho fatto?“. Sono le ultime parole pronunciate dal giudice Rosario Livatino ai suoi killer prima di venire ucciso in un campo della provincia agrigentina.
È il 21 settembre del 1990. Come ogni giorno Rosario Angelo Livatino, classe 1952, sta percorrendo la Strada Statale 640. Partito da Canicattì, sua città natale dove vive con gli anziani genitori, si sta dirigendo ad Agrigento per recarsi in tribunale. È una giornata particolare: devono essere decise le misure di prevenzione da adottare nei confronti di 15 boss di Palma di Montechiaro. È senza scorta, non l’ha mai voluta: “Non voglio che altri padri di famiglia debbano pagare per causa mia“.
A pochi chilometri dalla città dei Templi, mentre è alla guida della sua Ford Fiesta amaranto, viene affiancato da un commando mafioso composto da 4 uomini: due a bordo di una moto da enduro, altrettanti a bordo di una Fiat Uno bianca. Speronano la sua vettura e cominciano a sparare: i primi proiettili frantumano il lunotto posteriore, uno lo ferisce alla spalla. Braccato e solo, Livatino abbandona l’auto sul ciglio della strada e tenta la fuga a piedi tra i terreni al lato della carreggiata. Gli assassini lo inseguono e lo crivellano di colpi, l’ultimo in pieno volto. Prima di essere assassinato riesce a pronunciare solo quella domanda, senza ottenere risposta. In cuor suo, però, il giudice sa chi ha voluto la sua morte: la stidda.
La stidda
Nata dalla scissione di alcuni clan delle province di Agrigento, Enna e Ragusa che non volevano allinearsi al dominio dei corleonesi, la stidda si è contrapposta a Cosa nostra ed è stata protagonista negli anni ’80 di una guerra di mafia che ha condannato i principali centri dell’Agrigentino (Palma di Montechiaro, Porto Empedocle e Racalmuto) a una stagione di sangue e paura. Alla fine i morti saranno circa 300 morti.
La carriera nella magistratura
Rosario Livatino, laureatosi con lode in Giurisprudenza all’Università di Palermo nel 1975, nel ’78 ha cominciato la sua carriera nella magistratura come uditore a Caltanissetta. L’anno successivo approda al Tribunale di Agrigento in veste di sostituto procuratore: per dieci anni si occupa delle più delicate inchieste di mafia e di quella che è stata riconosciuta come la “Tangentopoli siciliana“. In quegli anni, infatti, nell’Agrigentino vengono commissionate grandi opere che determinano un grande afflusso di denaro. Gestione pubblica e appalti vengono spartiti. Imprenditori, politici e mafiosi portano avanti i loro comuni interessi e cementificano una lucrosa collaborazione criminale.
Il 21 agosto 1989 entra in servizio come giudice a latere e si occupa dei sequestri dei beni mafiosi: è tra i primi magistrati siciliani ad applicare la nuova forma di contrasto alla criminalità organizzata introdotta dalla legge Rognoni-La Torre. Il suo è un lavoro quasi pionieristico: segue la scia dei soldi e impara presto a destreggiarsi nello studio di documenti contabili e bancari. Con le indagini patrimoniali assimila metodi e intuizioni di Giovanni Falcone. Diventa così un pericolo per gli interessi dei boss.
Rosario Livatino, giovane e determinato
Nonostante la giovane età e circondato da un clima di diffusa omertà e connivenza, Livatino si batte senza remore contro il potere delle cosche del territorio. Mette in campo la profonda conoscenza che ha del fenomeno mafioso e la capacità di ricostruire trame e nessi fondamentali per il corretto sviluppo delle indagini.
Non si tira mai indietro, infaticabile e determinato. Lo anima il viscerale rispetto e l’attaccamento che nutre per il lavoro e l’alto senso del dovere. La sua notevole preparazione viene lodata da colleghi e superiori, che ne evidenziano anche lo spiccato intuito giuridico.
Serio e riflessivo, ha modi garbati e modesti: affronta i temi più spinosi con chiarezza e semplicità. Nel lavoro è riservato, non cerca notorietà. L’allora procuratore generale del Tribunale di Agrigento lo descrive così: “Si distingue per intelligente, oculata, intensa e proficua attività, per versatilità d’ingegno, ottima cultura e retto senso giuridico. Nelle istruttorie affidategli dimostra capacità, zelo e correttezza. Rappresenta degnamente l’ufficio nelle udienze penali dando prova di possedere talento e acume, pronunziando delle requisitorie pregevoli che spesso trovano riscontro nelle decisioni del collegio“.
La fede religiosa di Rosario Livatino
A sostenerlo nel lavoro è anche la profonda fede religiosa. Sin dal primo giorno della sua carriera, a 26 anni, si affida a Dio e annota su un taccuino: “Ho prestato giuramento: sono in magistratura. Che Iddio mi accompagni e mi aiuti a rispettare il giuramento e a comportarmi nel modo che l’educazione che i miei genitori mi hanno impartito esige“. È la prima di molte agende sulle quali appunta giorno dopo giorno avvenimenti e riflessioni. Su tutte capeggia una sigla “S.T.D.“: “Sub tutela Dei” (sotto la tutela di Dio). Poche parole, ma sufficienti a delineare un saldo programma di vita.
Codice e Vangelo per Rosario Angelo Livatino sono inscindibili. Ogni mattina, prima di entrare in tribunale ad Agrigento, il giudice prega nella vicina chiesa di San Giuseppe. Numerose le tracce del suo rapporto con la fede, che investe anche la visione che ha della giustizia, a proposito della quale scrive: “È necessaria, ma non sufficiente, e può e deve essere superata dalla legge della carità che è la legge dell’amore, amore verso il prossimo e verso Dio“. Pensieri che incarna e vive, conscio che “quando moriremo nessuno ci verrà a chiedere quanto siamo stati credenti, ma credibili“.
Gli ultimi giorni
Gli ultimi giorni di vita sono venati dall’angoscia. Sa di essere in pericolo: “Vedo nero nel mio futuro. Che Dio mi perdoni“. Il pensiero che più lo attanaglia è rivolto a papà Vittorio e mamma Rosalia: “Che il Signore mi protegga ed eviti che qualcosa di male venga da me ai miei genitori“.
L’appuntamento con la morte è tra i campi di sterpaglie, pietre e polvere della SS 640, la stessa strada che ventiquattro mesi prima era stata teatro dell’omicidio del giudice Antonino Saetta e di suo figlio Stefano. Sono le 9 di mattina del 21 settembre 1990. Rosario Livatino ha 38 anni. E li avrà per sempre. Il cadavere viene coperto con un lenzuolo bianco. Sul luogo dell’eccidio accorrono anche Paolo Borsellino e Giovanni Falcone.
L’anatema di Papa Giovanni Paolo II contro la mafia
Tre anni dopo, il 9 maggio 1993, Papa Giovanni Paolo II, in visita pastorale nell’Agrigentino, incontra i genitori del giudice. Al padre che tra le lacrime dice “mio figlio è stato reciso dalla mafia come un fiore“, Karol Wojtyla risponde: “Vostro figlio è un martire della giustizia, indirettamente della fede“. Dopo quel breve incontro, il Papa pronuncia parole di fuoco contro i mafiosi durante la celebre omelia nella Valle dei Templi, dove tuona: “Convertitevi!“.
La coraggiosa testimonianza di Pietro Ivano Nava
Il commando mafioso viene arrestato dopo la testimonianza di Pietro Ivano Nava, un rappresentante di commercio di Lecco in Sicilia per lavoro che vede gli assassini e li descrive minuziosamente. Diventato testimone di giustizia, prima ancora che esistesse uno specifico programma di protezione, da 30 anni Pietro Nava non esiste più: ha una nuova identità. Numerose volte ha raccontato cosa è derivato dal suo gesto: l’isolamento, anche dalla famiglia; la perdita del lavoro; la difficoltà a reinserirsi nella vita sociale. Ma in ogni occasione assicura: “Denuncerei ancora i killer“. È anche grazie al suo coraggio se gli autori dell’omicidio sono stati condannati all’ergastolo dalla Corte di Assise di Appello di Caltanissetta nel 1999.
Rosario Livatino, Servo di Dio
Rosario Livatino, il ragazzo con la toga per il quale si è conclusa la fase diocesana del processo di beatificazione, è oggi riconosciuto come Servo di Dio.
Fonte foto: rai.it