“Cosa Nostra” sul tavolo nazionale: dall’atteggiamento “silente” alle radici nella “Capitale dei capitali”

PALERMO – La storia di “Cosa Nostra”, l’organizzazione mafiosa che controlla il traffico di stupefacenti, riciclaggio di denaro, beni mobili e immobili (e non solo) in Sicilia, è più ingarbugliata di quanto sembra.

Da Catania a Palermo, da Trapani ad Agrigento, passando per Siracusa: il nuovo rapporto della D.I.A. (Direzione Investigativa Antimafia) illustra come la mafia siciliana si sia insediata in Italia per un piano finalizzato ad aumentare il proprio patrimonio ed espandersi all’estero, con dei rapporti che portano “Cosa Nostra” sul tavolo d’affari più importante (e nascosto) d’Europa e del mondo.

Nel “Bel Paese”, le famiglie mafiose siciliane sono riconosciute come“silenti”: l’idea è sempre stata quella di fuggire da comportamenti violenti, come non accadeva invece in passato, per due motivi. Il primo, distorcere l’attenzione delle forze dell’ordine; il secondo, di determinare il “rigetto” da parte delle popolazioni locali.

LA DROGA – I forti e radicati collegamenti partono dal nord Italia, dalla Lombardia, dove domina principalmente il traffico di stupefacenti: l’economia lombarda è sempre stata una delle più redditizie di tutto il paese, per questa ragione da quasi 60 anni la mafia che comprende “Cosa Nostra” e “Ndrangheta” è molto attiva, nello specifico attraverso i buoni rapporti tra il clan siracusano Triglia e quello calabrese Sergi, con base a Milano. Quello degli stupefacenti è un mercato florido, affidato a narcotrafficanti e spacciatori che smerciano la droga che arriva dall’estero: marijuana dall’Albania e cocaina dal Perù, passata grazie alle relazioni con l’Olanda. Coinvolta nel narcotraffico peruviano c’è anche la famiglia palermitana dei Carollo. Non solo marijuana e cocaina: il mercato della droga si è esteso anche in Campania con hashish, trafficato e poi commercializzato nelle principali piazze palermitane per conto del mandamento di Porta Nuova.

I BENI IMMOBILI – Il soprannome di “silenti” non è stato dato per caso: scendendo verso il centro Italia, in Toscana, “Cosa Nostra” mette in mostra l’abilità di mimetizzarsi attraverso il condizionamento della gestione pubblica per insediarsi nel giro degli appalti e reinvestire capitali illeciti. Tutto nel silenzio, nella complicità di uomini d’affare dotati di competenze specifiche in campo finanziario e tributario. Si parla anche di un progetto pilota di agricoltura sociale, per rendere l’azienda un modello innovativo di impresa per la gestione dei beni appartenenti alla mafia. Beni immobili che hanno attirato l’attenzione di un imprenditore pugliese: un piccolo giro che ha portato a un grande affare. Ben 25 milioni di euro per una grossa area edificabile di Trapani, una fruttuosa speculazione edilizia messa in piedi grazie ad un altro imprenditore colluso con cosa nostra trapanese. La D.I.A. di Trapani, poi, ha sequestrato tutto otto mesi fa.

LA CAPITALE DEI CAPITALI – Roma è la capitale d’Italia, il fulcro della vita politica, economica e amministrativa del paese. “Cosa Nostra” è anche lì, i “silenti” sono più che radicati: nel Lazio si agisce grazie a un vero e proprio modus operandi organizzato con la mafia autoctona romana, che si occupa del traffico di stupefacenti e al riciclaggio e reimpiego di capitali. La mafia siciliana è presente sul territorio grazie alle famiglie che da tempo si sono stabilite nella zona. Sembra esserci un ricambio generazionale, con i nuovi a portare un “imprinting mafioso” concentrato più sull’imprenditoria che sulla droga. Si è assistito, nel corso degli anni, alla stretta sinergia tra la famiglia romana dei Triassi e quella agrigentina dei Cuntrera-Caruana, che ha portato al riciclaggio di proventi illeciti. Ma c’è anche Catania nel giro: la famiglia etnea dei Mazzei-Carcagnusi, che ha subito un duro colpo nel novembre scorso. L’operazione, condotta dai carabinieri di Roma, portò all’arresto di sei persone, tra cui un latitante che aveva trovato rifugio nell’hinterland romano.