AGRIGENTO – Il gip del Tribunale di Agrigento, Giuseppe Miceli, ha respinto la richiesta di patteggiamento di cinque dei sei tunisini accusati di pirateria lo scorso 12 agosto.
Il procuratore aggiunto, Salvatore Vella, d’altronde, non ha prestato il suo consenso alla richiesta di riduzione della pena a 2 anni, 11 mesi e 16 giorni di reclusione, perché non ha ritenuto la pena “congrua rispetto alla gravità dei fatti contestati“.
L’udienza di stamattina e l’accusa per i sei pirati tunisini
Sono ancora tutti in carcere, fra Agrigento e Gela, gli imputati in questione. Solo per il sesto di loro, il 31enne Kerkeni Abdelhalim, il quale aveva direttamente chiesto, era stato ammesso il rito abbreviato. Per gli altri cinque, stamattina si è tenuta l’udienza preliminare, nel corso della quale le difese hanno chiesto il giudizio abbreviato. L’udienza, intanto, è stata rinviata al 20 maggio per l’esame dei tunisini.
L’accusa per i sei è quella di reato di pirateria ai danni di migranti. Per questa ragione, il 12 agosto, nel corso di un’operazione antipirateria condotta dai poliziotti della Squadra Mobile di Agrigento, in collaborazione con la Guardia di Finanza e la Guardia Costiera, sono stati fermati a bordo del peschereccio Zohra del compartimento di Monastir.
Secondo le indagini, i componenti dell’equipaggio avrebbero rubato il motore da un barchino di ferro, con 49 migranti a bordo, e li avrebbero costretti a consegnare loro il denaro di cui erano in possesso, minacciandoli di lasciarli alla deriva.
Le indagini di quelle settimane avevano permesso di accertare che “diversi equipaggi di pescherecci tunisini hanno cessato di essere pescatori e si sono dedicati alla più lucrosa attività di pirati, depredando i numerosi barchini in ferro che continuano a partire dalle coste di Sfax con a bordo, per la maggior parte, migranti sud-sahariani ed asiatici“.
Il fermo d’iniziativa era stato convalidato, esattamente per come richiesto dal pm Salvatore Vella, dal gip Stefano Zammuto.
Il racconto di uno dei sopravvissuti
“È sopraggiunta una barca, pensavamo fossero i soccorsi e invece, quando si sono avvicinati, abbiamo visto che si tratta di un peschereccio tunisino. Temendo che si potesse verificare quanto era accaduto pochi giorni prima, quando altri erano stati privati del loro motore, abbiamo deciso di non parlare con i pescatori. I 6 uomini ci hanno detto invece che dovevamo consegnare a loro il nostro motore. […] Temendo per la nostra incolumità, abbiamo accettato di legare la nostra barca, con una fune, al peschereccio tunisino“.
“Dopo aver legato la nostra barca al peschereccio”, ha continuato a ricostruire uno degli immigrati soccorsi e sbarcati a Lampedusa, “un pescatore si è sporto ed ha afferrato il nostro motore tirandolo a bordo del peschereccio. Tutto è avvenuto nonostante le nostre proteste: eravamo consapevoli che senza motore eravamo in pericolo. I pescatori tunisini per calmarci ci hanno detto che non ci avrebbero lasciati in balia delle onde e che avrebbero aspettato i soccorsi per poi andarsene. Ricordo che, per un breve tratto, siamo stati rimorchiati e abbiamo navigato, per meno di un’ora, assieme. Dopo i pescatori hanno deciso di mollare la fune e di allontanarsi. Noi eravamo disperati. Dopo circa 2 ore gli stessi pescatori sono tornati e ci hanno affiancato. Molti di noi piangevano per la paura“. Prosegue il racconto:
“A questo punto, i pescatori dicevano che se avessimo consegnato loro del denaro, non ci avrebbero lasciati da soli e avrebbero aspettato l’arrivo dei soccorsi italiani. Non avendo altre possibilità abbiamo accettato il ricatto, abbiamo raccolto complessivamente 150 dinari tunisini che abbiamo messo dentro un cappello nero e lo abbiamo lanciato sul peschereccio“.