Denunciare e combattere la violenza sulle donne: le speranze e le aspettative della legge Cartabia

Denunciare e combattere la violenza sulle donne: le speranze e le aspettative della legge Cartabia

ITALIA Chiacchierata con l’Avvocata Valeria Sicurella, che ha iniziato la sua carriera nel diritto penale, con una particolare attenzione alla violenza sulle donne. Nel 2004 ha avuto inizio la sua cooperazione con l’Associazione Thamaia, un’Organizzazione Non Lucrativa di Utilità Sociale (ONLUS), che si dedica a promuovere una migliore qualità della vita per donne e minori che sono vittime di violenza e maltrattamenti familiari.

A tutt’oggi, si dedica alla lotta contro la violenza sulle donne in tutte le sue forme.

Tra le attività che svolge, oltre alla consulenza legale e all’assistenza nei processi penali, ce n’è una a cui è particolarmente legata, ossia, la costituzione di Thamaia quale parte civile nei processi relativi alla violenza sulle donne.

Ha fatto formazione e, adesso, si occupa di formazione e informazione sulla violenza nei contesti dove Thamaia viene convocata. Fa parte del Direttivo e ha un’esperienza di diciotto anni sui percorsi delle donne e riporto una sua affermazione: “devo dire che ancora riesco a sorprendermi di quanta violenza ci possa essere all’interno di una relazione, non solo di violenza attraverso i maltrattamenti, ma, anche, di violenze dei minori e tutto quello che è attorno alla relazione; perché quando c’è una relazione tra un uomo e una donna, spesso ci sono minori coinvolti che subiscono sia in maniera diretta che indiretta, quale violenza assistita, la violenza che c’è tra i genitori”.

Pertanto, attraverso il lavoro di sensibilizzazione e informazione svolto dall’associazione, si mira a creare una maggiore consapevolezza sulla gravità del fenomeno della violenza di genere, e a stimolare una presa di coscienza collettiva sulle conseguenze sociali e psicologiche della violenza sulla vita delle donne e dei minori.

Altresì, Thamaia è impegnata nella promozione di azioni volte alla prevenzione della violenza di genere, attraverso l’educazione alla legalità e alla parità di genere. L’associazione crede che solo attraverso un’educazione efficace e l’attuazione di politiche sociali e legislative adeguate, si possa contrastare efficacemente la violenza di genere e costruire una società più giusta e solidale per tutti.

Il Consiglio Direttivo dell’Associazione Thamaia è composto: dalla Presidente: Anna Agosta, dalle Consigliere: Licia Castoro, Vita Salvo, Valeria Sicurella e dal Comitato delle Socie Fondatrici.

NOTE STORICHE SULL’ASSOCIAZIONE THAMAIA

L’Associazione Thamaia Onlus è un’organizzazione non a scopo di lucro costituita nel 2001 con l’obiettivo di migliorare la qualità della vita delle donne e dei minori che vivono in condizioni di violenza e maltrattamento familiare. La missione dell’associazione è di fornire supporto alle vittime di violenza, sia dal punto di vista psicologico che giuridico, per garantire la loro tutela e la loro sicurezza.

Oltre a fornire assistenza alle vittime, Thamaia ha, anche, un ruolo importante nella sensibilizzazione della società sulla violenza di genere. L’associazione organizza regolarmente conferenze, incontri e seminari con l’obiettivo di prevenire la violenza e sensibilizzare la cittadinanza sui temi della violenza maschile sulle donne.

Inoltre, l’associazione collabora con operatori socio-sanitari, le forze dell’ordine, le scuole e altre organizzazioni per diffondere informazioni sui servizi disponibili per le vittime di violenza e promuovere l’educazione alla legalità.

Grazie alla sua esperienza e alla sua presenza sul territorio, l’Associazione Thamaia è diventata un punto di riferimento per molte donne che vivono in condizioni di violenza e per coloro che cercano informazioni sulla violenza di genere.

La sua attività continua a essere fondamentale per garantire la protezione e la giustizia per le vittime di violenza, e per costruire una società più giusta e solidale.

L’Associazione descritta in questo articolo è una realtà impegnata nel contrastare la violenza sulle donne e promuovere una migliore qualità della vita per coloro che ne sono vittime.

L’associazione è affiliata a due importanti organizzazioni italiane che si dedicano alla lotta contro la violenza e l’abuso: D.i.Re. (Donne in rete contro la violenza) e Cismai (Coordinamento Italiano dei Servizi contro il Maltrattamento e l’Abuso all’Infanzia).

Thamaia rappresenta, quindi, un punto di riferimento fondamentale per tutte le donne vittime di violenza e per coloro che desiderano lottare contro questo fenomeno.

L’INTERVISTA

Cosa vuol dire costituirsi parte civile?

Costituirsi parte civile significa far richiesta di risarcimento danni, detto alla maniera volgare, però, risulta essere l’unica possibilità in cui la persona offesa ha la possibilità di entrare a far parte attiva del processo e, poi, per scelte politiche di Thamaia, abbiamo fatto delle costituzioni di parte civile in alcuni processi che abbiamo selezionato, non in tutti i processi, e che si sono occupati di femminicidio.

Indipendentemente dal luogo o sede?

Affinché un’associazione sia legittimata a costituirsi parte civile, deve avere un radicamento territoriale ed essere attiva in quel che fa il territorio di riferimento, non indipendentemente perché deve essere Catania e provincia. Ad esempio, la prima che abbiamo fatto è stata nel procedimento per l’omicidio di Stefania Noce. Poi, ci siamo occupate di Veronica Valenti, del caso di Valentina Salamone e, adesso, ci siamo costituiti parte civile per l’omicidio di Ada Rotini avvenuto nel 2021 a Bronte. Ci siamo occupate di una serie di procedimenti, che non sono solo femminicidi, ma anche processi per maltrattamenti o per violenza sessuale come quella del “santone” e che, pertanto, ci siamo costituiti parte civile.

Cosa significa Thamaia?

Si tratta di un’invenzione delle socie fondatrici che hanno avuto l’idea di fondare un centro antiviolenza a Catania a seguito di un’esperienza con il Rapporto Urban e con l’Università di Scienze politiche. Un progetto in Spagna dove allora c’era un centro antiviolenza che si chiamava così dal nome di una pianta spagnola, quindi, l’ispirazione non ha un significato strettamente legato alla violenza, ma il richiamo a quella esperienza di tanti anni fa. Thamaia è stata fondata nel 2001 come associazione, non antiviolenza e nel 2021 abbiamo festeggiato i vent’anni.

Quali cambiamenti ci sono stati dal 2001 al 2023?

Nel 2001, l’Associazione Thamaia Onlus si è posta l’obiettivo di sensibilizzare l’opinione pubblica sulla violenza maschile sulle donne e di garantire la fornitura di servizi adeguati alle vittime. Inoltre, l’Associazione è socia di importanti organizzazioni nazionali come D.i.Re. (Donne in rete contro la violenza) e del Cismai (Coordinamento Italiano dei Servizi contro il Maltrattamento e l’Abuso all’Infanzia). Tra le nostre attività figurano la formazione agli operatori, prevenzione nelle scuole con un gruppo dedicato. Noi, però, distinguiamo tra l’attività dell’associazione, che svolge le mansioni elencate prima, il cui unico obiettivo è il contrasto contro la violenza, ma anche attività politica, di formazione e informazione sul territorio dal centro antiviolenza, che però rimane il fulcro della nostra attività, che si occupa, invece, dei percorsi delle donne attraverso un filtro telefonico, di accoglienza.

Infatti, il primo contatto è telefonico, poiché si valuta la domanda, ossia la richiesta da parte della donna che ci telefona, poi, ha inizio un incontro fisico con l’operatore e infine, ha inizio un percorso che riguarda la fuoriuscita dalla violenza, la forza di consapevolezza delle donne e l’eventuale attivazione di tutte quelle che sono le risorse all’interno quali: consulenze psicologiche, consulenze legali e uno sportello lavoro. Si tratterebbe di attività che vengono svolte e coordinate da una equipe.

Chi è nata prima l’Associazione D.I.RE o l’Associazione Thamaia?

L’Associazione D.I.RE è nata successivamente e trova Thamaia tra le fondatrici. Noi siamo tra le socie fondatrici, che riuniscono prima una serie, di un numero limitato di centri antiviolenza in territorio nazionale e al momento ce ne sono 106. Non è l’unica associazione sul territorio nazionale, poiché esiste, anche, il Telefono rosa. Noi siamo una realtà più grande, che ha più numeri dal punto di vista dell’accoglienza e anche una visibilità non indifferente e una capacità di interlocuzione, poiché D.I.RE viene interpellata all’interno dei lavori parlamentari per dare il suo contributo basato sulla lunga esperienza in materia di violenza sulle donne, così come ha fatto per la Legge Cartabia.

Il femminicidio, in passato, non è stato regolato da una legge? E la Riforma Cartabia?

La parola femminicidio non esiste nel codice penale. L’articolo che punisce questo tipo di condotta è il 575, cioè quello che punisce l’omicidio, che non è qualificabile.

Quindi l’uccisione di una donna, maltrattata, stuprata, lesa è equiparata a un omicidio qualsiasi?

L’uso del termine femminicidio o femicidio è legato alla volontà di evidenziare il carattere specifico e differenziato degli omicidi commessi contro le donne, che spesso sono legati a dinamiche di violenza di genere e di potere.

Tuttavia, va sottolineato che l’uso di questi termini non deve essere usato in modo indiscriminato o strumentalizzato, ma sempre alla luce di una corretta analisi del contesto e delle dinamiche sociali che stanno alla base della violenza contro le donne.

Quindi, serviva, in un primo momento, per individuare, non tanto l’uccisione di una donna solo perché è donna, ma tutta quella serie di comportamenti che sono finalizzati a vessarla, a umiliarla, a squalificarla come tale anche in ambito sociale, politico.

Adesso si usa, impropriamente, la parola femminicidio, in materia atecnica per indicare l’uccisione di una donna, ma in effetti la parola corretta è femicidio. Ci sono, anche, quei detrattori che concepiscono una donna in quanto tale utilizzano questa parola dandone una connotazione peggiorativa.

Naturalmente, non tutte le uccisioni di donne sono femicidio, lo sono solo quelle legate a una relazione con un uomo e non di una donna in quanto tale.

Quindi, ci deve essere alla base della parola femicidio una particolare causa, ragione, un movente specifico che riguarda il suo essere donna. Ad esempio, se l’uccisione di una donna avvenisse durante una rapina, non è femicidio. Se avviene per fatti di mafia, non è femicidio. L’importanza di essere donna e di essere stata uccisa in quanto tale.

In breve, l’articolo 575, contenuto nel codice penale, riguarda tutte le uccisioni di persone, l’“omicidio”, infatti, non è riferito al singolare, ma a tutte le persone che vengono uccise e chi ha commesso il reato deve subire una pena e un processo.

Pertanto, la Riforma Cartabia non menziona la definizione di femminicidio.

La Riforma Cartabia, dal nome del Ministro Marta Cartabia, che aveva elaborato una riforma sia nel penale che nel civile e che dovesse avere come finalità ultima quella di accorciare i processi poiché il problema che affligge, in generale, la giustizia italiana, a prescindere da qualsiasi reato a cui noi facciamo riferimento, è la lunghezza dei processi sia in sede civile che in sede penale.

Accorciare la durata dei processi è una cosa positiva o negativa?

Se funzionasse, dovrebbe essere positiva. Ovviamente, perché accelerare l’intervento dello Stato è sempre una cosa positiva, nel senso che si fa in modo che ci sia una giustizia più rapida e, quindi, più efficace, più effettiva perché non è tanto importante la pena, che viene combinata dal punto di vista della giustizia penale, perché la Riforma Cartabia ha tutta una serie di norme che riguardano, anche, la riforma civile e, quindi, cambiano le citazioni, cambia tutto.

Nel nostro caso ci sono tutta una serie di norme che dovrebbero far sì che il processo diventi più veloce, però, come tutte le riforme, una volta che giungono al Parlamento, subiscono una serie di modifiche, che sono compromessi politici, di carattere normativo e, quindi, in qualche modo è stata snaturata la natura la funzione della Cartabia.

Non tutte le modifiche entreranno in vigore e tempestivamente, perché alcune dovrebbero diventare cogenti, efficaci a partire da giugno.

Tra queste, quella più vicina alle nostre questioni è quella della cosiddetta giustizia riparativa, uno dei cavalli di battaglia del Ministro Cartabia, che ha inserito nel nostro codice penale un istituto che prima non esisteva o almeno non in maniera così diffusa.

La giustizia riparativa dovrebbe prevedere un diritto penale che non sia solo punitivo, che non serva solo a prevedere una sanzione e una punizione, ma che cerchi di creare una sorta di mediazione e di risoluzione dei conflitti tra due parti, ossia la vittima e l’autore del reato.

La giustizia riparativa è possibile in alcuni casi e non in altri, non solo, ma nel caso della violenza sulle donne – specifico meglio- violenza maschile sulle donne poiché noi ci occupiamo proprio di questi casi e ci sono, pertanto, delle norme che lo escludono ovvero la Convenzione di Istanbul, che impedisce che ci sia la mediazione all’interno di una coppia, ad esempio: in sede di separazione e quando c’è violenza.

Al solito, l’equivoco è di distinguere e definire il conflitto dalla violenza. Quando c’è un conflitto, ci sono due parti che confliggono, quindi, discutono, litigano, disputano in maniera equiparata su una situazione di equilibrio; invece, quando c’è violenza c’è disequilibrio, quindi, che tipo di riparazione si può ottenere?

È complicato, nel senso che, è quasi impossibile. Premesso che, ovviamente, tutta la materia della giustizia riparativa passa attraverso il consenso, e se la persona offesa non vuole riparare, non vuole conciliare, nessuno la può costringere. Pertanto, dovremmo vedere come si delineerà , che tipo di applicazione avrà, che tipo di incidenza può avere su delle persone offese, che a volte non si sentono pronte ad affrontare il procedimento penale, perché devono, prima, affrontare un processo che è di consapevolezza, di presa di coscienza e presa di distanza dalla violenza per poter, poi, affrontare tutto il resto.

L’Avvocata – rivolgendosi a me – Lei deve immaginare, che quando una donna decide di uscire fuori da questo percorso, intanto, non è mai un percorso lineare, né mai una strada dritta, ma è una strada fatta di andirivieni, poiché c’è il ciclo della violenza che ti impedisce di avere questa linearità, perché  devi affrontare una separazione o un procedimento penale nei confronti della persona che hai scelto per la vita, il padre dei tuoi figli, che è stato indetto un nuovo investimento emotivo, un investimento totalizzante, quindi, decidere che vuoi venire fuori da quella situazione, che fino a quel momento hai pensato fosse l’amore della tua vita e, che amore non era, non è così facile, non è una costatazione immediata e ci vogliono dei tempi di elaborazione.

È, praticamente, come elaborare a tutti gli effetti, un trauma o un lutto, un tuo fallimento, per cui affrontare insieme processo penale, processo civile, separazione, situazione economica instabile e, spesso, ovviamente, la persona offesa, cioè la vittima, ossia, la parte economica più debole, soprattutto nelle nostre realtà è sempre così, perché lo era o lo è diventata per occuparsi dei figli, perché ha ceduto o rinunciato al lavoro e non è in grado  di affrontare una situazione economica in maniera autonoma.

Immagini di trovarsi in una sorta di bomba deflagrata e deve cercare di affrontare tutto. Pertanto, prevedere, pure, una riparazione in quel momento la concederà?

Nel momento in cui nel rapporto subentra la violenza, credo che l’amore non esisti più.

L’amore non c’è nel momento in cui c’è la violenza. Il problema è capirlo a livello cosciente, non è così facile, non è un’equivalenza, non è affrontare una rapina.

Se io subisco il furto dell’auto, mi rendo conto di cosa è successo e so distinguere chi sta dalla parte del bene e chi del torto.

Nel momento in cui, invece, io ho una relazione affettiva, sentimentale e, soprattutto, quando sono relazioni molto lunghe e se c’è una famiglia, quando ci sono dei figli è complicato rendersi conto e capire che non eraamore, ma era un calesse“, come direbbe Troisi.

In una situazione da cui si deve fuggire non è così automatico farlo. Infatti, è così tanto difficile rendersene conto, lo devi maturare, lo devi riconoscere perché all’interno del rapporto di coppia in cui c’è la violenza non è facile capire, neanche, che è violenza.

Talaltro, la nostra società non aiuta questo riconoscimento perché, spesso, si giustifica, si tollera. Abbiamo un livello di tolleranza nei confronti della violenza molto alta. Quindi, lo schiaffo può sembrare una situazione momentanea, “è geloso perché mi vuole bene“.

Tutti questi richiami, che ci vengono inculcati da quando siamo piccoli, giustificano certi atteggiamenti che, altrimenti, sarebbero aberranti.

Questo dipende dalla fragilità della persona?

Sulla fragilità, io starei attenta, perché le donne che subiscono violenza non sono fragili, sono forti perché riescono a tollerare, subire, vivere in una situazione di violenza, intendo in senso fisico, psicologico, economico, sessuale.

Ci sono vari tipi di violenza, che subiscono per lungo tempo, quindi, alla fine non sono donne fragili, sono donne molto forti che riescono a tollerare cose che io e lei, probabilmente, non riusciamo a tollerare. Oppure ci potremmo ritrovare senza rendercene conto, perché non risparmia nessuno. Una situazione di violenza può capitare a chiunque e per questo è così difficile rendercene conto, riconoscerlo e allontanarlo.

La Riforma Cartabia è, già, legge o una proposta di legge? Ha aggiunto nuovi reati?

La Riforma Cartabia è legge dal 2022, doveva entrare in vigore nell’ottobre del 2022, invece, è stata prorogata al 31 dicembre.

È entrata in vigore, ma alcune norme sono state congelate ed entreranno in vigore successivamente. Il 1 marzo è entrato in vigore una parte della riforma civilistica, ossia, il processo civile, citazioni, notifiche, tutta una questione tecnica che non approfondiamo.

Quindi, è legge a tutti gli effetti, bisogna vedere come viene applicata nel corso del tempo.

La Riforma Cartabia introduce nuove regole relativamente, ad esempio, alla procedibilità di alcuni reati o nuove regole relative alle notifiche, alla possibilità di impugnazione, ma non introduce nuovi reati.

Il fondo nazionale per le vittime di violenza è opera della Riforma Cartabia?

No, era già previsto da prima per far sì che le vittime di violenza, potessero, qualora non ci fossero state le possibilità economiche, di poterne fare richiesta.

Gli autori del reato, spesso, non hanno grandi possibilità economiche per risarcire la vittima, pertanto, quando il risarcimento non può essere richiesto direttamente agli autori del reato, è possibile fare richiesta per ottenere il fondo.

Ci sono, però, dei requisiti stringenti: deve essere provata l’incapienza, quindi l’impossibilità di pagamento degli autori di reato.

È simile al gratuito patrocinio?

No, il gratuito patrocinio serve a pagare le spese legali, avere un avvocato a spese dello Stato e possono usufruire tutti gli imputati.

Per tutte le persone offese, però, ha dei limiti di reddito di €11.700,00 annui, peraltro, facili da superare.

Per le vittime di genere, che hanno subito violenza sessuale, maltrattamenti in famiglia, stalking, c’è la possibilità di acceder al gratuito patrocinio e a un legale ugualmente gratuito, il tutto a prescindere dal reddito, ossia anche coloro che hanno un reddito alto.

Il fondo, invece, è una sorta di scorta, che viene emessa da parte dello Stato, a cui si può accedere per ottenere il risarcimento del danno subìto, nel caso in cui l’imputato non abbia la possibilità. Ma, sono casi limitati. Deve essere richiesto entro un lasso di tempo, stabilito dalla legge, dal momento in cui viene emessa la sentenza. Il risarcimento non è al 100%, ma solo una quota.

Lo stesso avviene nei casi di estorsione, il cosiddetto fondo antiracket.

Esiste il reato di femminicidio da stalking?

È erroneo parlare di un nuovo reato quale il “femminicidio da stalking”. Sono due reati diversi: lo stalking è il reato di atti persecutori a cui può seguire un femminicidio come il caso di Giordana Di Stefano.

Due reati specifici, distinti e separati, che possono essere commessi insieme oppure separatamente.

Ritornando alla Riforma Cartabia, che ha introdotto una serie di modifiche al processo e alla procedibilità dei reati ossia l’esistenza di alcuni reati che sono procedibili a querela di parte.

Pertanto, è la vittima a decidere se denunciare oppure no. Altri reati, invece, sono procedibili di ufficio, perché lo Stato, ritenendoli più gravi, quali i maltrattamenti in famiglia, interviene immediatamente.

Esistono, altresì, reati misti: la violenza sessuale, per esempio, si ha il termine di un anno per fare una denuncia. Ma, dipende dalla persona lesa. Se non fa la denuncia, non si può procedere contro l’autore del reato, poiché è stata una scelta della vittima e perché comporta talmente tanto coinvolgimento emotivo, investimento, da lasciare alla persona stessa la scelta.

Qualora la vittima scegliesse di denunciare la persona che gli ha arrecato il danno, non è più revocabile, non si può tornare indietro. Invece, per i casi di percosse, lesioni, furto, minaccia, le denunce posso essere revocate.

Reati, quali estorsione e omicidio, non possono essere revocati.

Nell’ambito della violenza domestica, il maltrattante deve essere allontanato dalla vittima e fare riabilitazione in strutture dedicate? Esistono in Italia strutture di riabilitazione per questi casi?

L’allontanamento è una misura cautelare, ossia misure collegate alla valutazione della sussistenza di due requisiti: nella fase dell’indagini, quando, ancora, non c’è una condanna, non c’è un processo, si posso verificare: pericoli di fuga, reiterazione del reato.

L’altra esigenza per cui è richiesta la misura cautelare è il pericolo di inquinamento probatorio, ovvero la persona indagata possa in qualche modo occultare delle prove o fare qualche movimento per evitare che venga accertata la realtà.

Quando si prospettano pericoli del genere, si possono richiedere le misure cautelari, che si distinguono in arresti domiciliari o custodia cautelare in carcere, oppure divieto di avvicinamento alla persona offesa, ai luoghi in cui vive la persona offesa, oppure allontanamento dalla casa familiare.

Queste sono misure cautelari specifiche che riguardano i reati di violenza. Le misure cautelari si possono richiedere al momento della denuncia, solo in fase di indagini, poiché, successivamente vengono meno.

Quello che lei mi chiedeva in merito ai percorsi di riabilitazione, invece, è un’ulteriore misura che è stata prevista nel caso dell’esecuzione della pena, ovvero nel momento in cui entrano nelle carceri.

La riabilitazione è una condizione per ottenere la sospensione condizionale, poiché, quando una persona viene condannata per la prima volta, può godere della cosiddetta sospensione condizionale, entro i due anni di pena, cioè se viene condannato e ha una pena contenuta entro i due anni, lo Stato può rivalutare la sua condanna perché il reato è commesso per la prima volta. Lo Stato offre una seconda possibilità e lo lascia libero, ma la sospensione non è automatica.

Nei casi di maltrattamenti in famiglia, invece, è prevista un’ulteriore prova per poter godere della sospensione condizionale, l’autore del reato deve sottoporsi a un percorso riabilitativo, un trattamento di rieducazione.

Dal momento che riteniamo che non si tratti di persone malate, né che abbiano problemi, che abbiano, soprattutto, la voglia di capire, di ammettere di aver commesso un reato, poiché la mancanza di colpevolezza è una costante di questo tipo di reato. Non si danno le colpe dei loro sbagli, dei loro maltrattamenti, dei loro colpi, delle ferite che hanno provocato, ma trovano la scusa che sono le donne che li hanno provocati. Quindi, viene scaricata la responsabilità, non c’è mai l’assunzione vera di responsabilità.

Cosa succederà? Molto probabilmente, questo tipo di soluzione di ricorso d un percorso riabilitativo, sarà, ovviamente, sostanzialmente finto. Sarà strumentale per ottenere quel tipo di beneficio. Però, nel nostro contesto territoriale, non ci sono delle strutture e qualora ci fossero nel contesto nazionale, sono, sostanzialmente, private e dovrebbero avere la formazione specifica  per prendere in carico questo tipo di problema con tutto quello che ne consegue.

Ho, ancora, molti dubbi sulla percorribilità e l’efficacia di questo tipo di percorso. Però, che ci sia in qualche modo una richiesta di presa in carico non è negativo, pertanto, invece di avere solo la sospensione condizionale, sarebbe giusto che facessero il percorso riabilitativo, e che fossero in qualche modo “costretti” a prendere consapevolezza o, comunque, ammettere di aver commesso un reato è già qualcosa. Pensare che siano poveri malati da curare è tutt’altra cosa perché non lo sono. Il percorso terapeutico si richiede per ottenere un ricovero nel caso di comunità di recupero per tossicodipendenti.

Vero è, che ci sono certi reati talmente efferati da non poter spiegare con la nostra logica. Che siano commessi da malati, ma ahimè, non è così, sono persone perfettamente lucide, consapevoli, che scelgono volutamente di commettere dei reati e che si tratta, chiaramente, di persone affette da malattie mentali, e le malattie mentali tra di noi serpeggiano, si riscontrano nella realtà, nelle nostre situazioni quotidiane così come nei processi, però sono situazioni assolutamente marginali.

In quale caso, invece, avviene l’allontanamento della vittima, sola o con figli, dall’autore del reato e traferiti in una casa protetta?

È una soluzione che sceglie la Procura. Ad esempio, la Procura di Catania dà indicazione di chiedere sempre, nel momento in cui la vittima fa la denuncia, la volontà di essere messa in protezione, ma in teoria, dovrebbe essere sempre il maltrattante a essere allontanato da casa e non la donna, però, è una sorta di scelta, di compromesso, che si attua per mettere in sicurezza, prima possibile, la donna.

Se la vittima accoglie l’invito, viene immediatamente trasferita in una casa protetta, eventualmente, anche, con i figli.

È una scelta sia della vittima, sia della Procura, ma non è una soluzione sempre e comunque, perché bisogna valutare la situazione in casa, dei bambini che vanno a scuola, pertanto, sradicare tutto non è sempre la soluzione.

L’ideale sarebbe di avere delle misure cautelari, che, attualmente, vengono applicate con molta più frequenza e che allontanino lui, piuttosto che allontanare lei.

Quel tipo di soluzione non è sempre una soluzione totale perché allontanarlo da casa non significa che non possa, eventualmente, ritornarci e anche lì dipende dalla situazione. Ma, quando ci sono situazioni pericolose, invece di dargli solo l’allontanamento gli danno una misura più restrittiva, per esempio, la detenzione in carcere o gli arresti domiciliari in un’abitazione diversa da quella familiare.

Cosa è il Codice rosso? Cosa sono le Linee guida?

La Legge n. 69/2019, comunemente nota come il “Codice Rosso”, è stata promulgata il 19 luglio 2019 e ha avuto vigenza dal 9 agosto dello stesso anno. Questa legge ha introdotto importanti modifiche al codice penale, al codice di procedura penale e ad altre disposizioni in materia di tutela delle vittime di violenza domestica e di genere.

Le disposizioni contenute nel Codice Rosso includono importanti modifiche al diritto penale sostanziale, con l’introduzione di inasprimenti di sanzioni per i reati di violenza domestica e di genere.

In particolare, sono stati aumentati i termini di durata delle pene detentive e delle misure cautelari, al fine di garantire una maggiore protezione alle vittime e di prevenire reati futuri.

Il Codice Rosso ha, inoltre, introdotto il reato di stalking, ovvero la persecuzione di una persona attraverso la ripetizione di atti molesti o minacciosi. Questo reato è stato introdotto per affrontare in modo più efficace il fenomeno del cyberstalking, ovvero la persecuzione tramite internet e i social media.

Oltre alle modifiche di diritto penale sostanziale, il Codice Rosso ha, anche, introdotto disposizioni di indole processuale. In particolare, la legge prevede l’obbligo per i pubblici ministeri di istituire un registro nazionale degli autori di reati di violenza domestica e di genere, al fine di prevenire reati futuri e di garantire una maggiore efficacia nelle indagini e nei procedimenti giudiziari.

Il 24 novembre 2017, invece, sono state approvate con DPCM le Linee guida nazionali per le Aziende sanitarie e le Aziende ospedaliere in tema di soccorso e assistenza socio-sanitaria alle donne vittime di violenza.

Questo documento rappresenta uno strumento fondamentale per garantire un intervento adeguato e integrato nel trattamento delle conseguenze fisiche e psicologiche che la violenza maschile produce sulla salute della donna.

L’obiettivo principale delle linee guida è quello di fornire un percorso completo e personalizzato di cura per le donne che abbiano subìto una qualsiasi forma di violenza, italiane e straniere, comprese le minorenni.

Sono rivolte a tutti gli operatori sanitari e sociali coinvolti nella gestione delle vittime di violenza, al fine di garantire una corretta presa in carico delle donne che si rivolgono ai servizi sanitari.

Il Percorso previsto dalle Linee guida comprende un’attenta valutazione della situazione della donna e una corretta diagnosi delle conseguenze fisiche e psicologiche della violenza subita. Inoltre, prevede la somministrazione di terapie farmacologiche, l’accesso a servizi di supporto psicologico e la possibilità di accedere a percorsi di sostegno e di reinserimento sociale.

CONCLUSIONI

Spero che questa intervista, così esplicativa e chiara, possa auspicare a tutte le donne e tutti gli uomini, che amano le donne, alla nostra società territoriale e nazionale, un futuro prossimo in cui le donne siano rispettate e valorizzate in egual modo rispetto agli uomini e in cui la violenza e i maltrattamenti sulle donne siano considerati inaccettabili e repressi con fermezza.

Per raggiungere questo obiettivo, è necessario un impegno costante a tutti i livelli, dalle politiche pubbliche alle dinamiche relazionali tra le persone.

Per affrontare la violenza di genere e i maltrattamenti sulle donne, è necessario agire su diversi fronti.

In primo luogo, è importante promuovere in tutti i contesti, anche nei luoghi di lavoro, la formazione e la sensibilizzazione delle persone riguardo ai temi della violenza di genere e delle discriminazioni contro le donne, al fine di aumentare la consapevolezza e il rispetto reciproco.

In secondo luogo, occorre mettere in atto politiche pubbliche efficaci, partendo dalle Linee Guida dei pronto soccorsi, che possano essere attuati e fruibili, al più presto possibile, in tutte le strutture sanitarie pubbliche e private del nostro Paese. Ciò implica una maggiore collaborazione tra le istituzioni e le organizzazioni della società civile, oltre che una maggiore sensibilizzazione delle forze dell’ordine e del sistema giudiziario.

In terzo luogo, è importante promuovere la partecipazione attiva delle donne nella vita pubblica e politica, al fine di aumentare la loro rappresentanza e di sconfiggere le disuguaglianze di genere. Questo può essere realizzato attraverso politiche di parità di genere, di conciliazione tra vita familiare e lavoro e di valorizzazione delle competenze delle donne.

La lotta contro la violenza di genere e i maltrattamenti sulle donne richiede un impegno costante e duraturo di tutta la società. Solo attraverso una presa di coscienza collettiva e un impegno concreto da parte di tutti, sarà possibile costruire una società più giusta ed equa per le donne.