Atteggiamento petulante: quando diventa reato?

Atteggiamento petulante: quando diventa reato?

Un atteggiamento di arrogante invadenza e di intromissione continua e inopportuna nella altrui sfera di libertà può, molto frequentemente, portare a conseguenze che sfiorerebbero i limiti del giuridicamente legittimo.

Corteggiamenti, pedinamenti, avances, sms e messaggi: quando ci si approccia con una persona dell’altro sesso bisogna sempre mantenere quel giusto distacco necessario a non interferire troppo nella vita altrui; il rischio di chi non comprende “la linea di confine” è di risponderne penalmente.

In molte situazioni, si è infatti assistito a un rapido deterioramento dei rapporti tra le parti sfociato poi in una querela dinanzi alla polizia o in Procura della Repubblica.

Nel corso degli anni la giurisprudenza ha indicato quali sono gli atteggiamenti che fanno scattare il reato di molestie: non importa se le intenzioni siano pacifiche e, anzi, rivolte al corteggiamento, anche la passione deve fare i conti con la legalità ed in questo non c’è modo di richiamarsi alla buona fede dell’agente.

Ciò che fa scattare il reato di molestie è proprio la “petulanza”.  Il termine “petulanza”, richiamato nell’art. 660 c.p. quale elemento costitutivo del reato di molestie, è stato oggetto di definizione da parte della Corte di Cassazione in molteplici occasioni.

L’orientamento giurisprudenziale prevalente, per petulanza intende “un atteggiamento di arrogante invadenza e di intromissione continua ed inopportuna nell’altrui sfera di libertà” (Cass. pen. 7993/21).

Ma la reiterazione del comportamento non deve per forza avvenire in un lasso di tempo ampio: anche condotte ripetute, fino all’ossessione, durante un arco temporale ristretto – come lo stesso giorno – possono far scattare il reato in questione.

Se poi l’incidenza di tale comportamento è talmente pervasiva da determinare ansia, timore o cambiamento nelle abitudini di vita nella vittima, scatta il più grave reato di stalking. Comprendere la differenza tra molestie e stalking è determinante soprattutto ai fini della pena, più blanda nel primo caso, particolarmente grave invece nel secondo.

Una molestia è dunque un comportamento sgradevole che provoca noia o fastidio e che può essere realizzato sia con gesti sia con parole.

Dal punto di vista legislativo, la molestia viene punita dall’art. 660 c.p.: “Chiunque, in un luogo pubblico o aperto al pubblico, ovvero col mezzo del telefono, per petulanza o per altro biasimevole motivo, reca a taluno molestia o disturbo. La pena è l’arresto fino a sei mesi o l’ammenda fino a 516 euro”.

Le molestie che fanno scattare il reato sono punite se commesse in luogo pubblico, o aperto al pubblico, o per mezzo del telefono e, quindi, anche quelle mediante l’invio di sms o di altra forma di messaggi in chat (social network).

Dunque, un atteggiamento molesto posto in un luogo privato non può far scattare il reato in commento. In questo caso, bisognerà valutare l’eventuale ricorrenza dei presupposti di altri reati come, ad esempio, quello di violenza privata o, nel peggiore dei casi, di violenza sessuale.

Si intende “aperto al pubblico” il luogo cui ciascuno può accedere in determinati momenti ovvero il luogo al quale può accedere una categoria di persone che abbia determinati requisiti. Di conseguenza, devono essere considerati luoghi aperti al pubblico l’androne di un palazzo e la scala comune a più abitazioni.

Il reato di molestie non richiede un atteggiamento abituale, può pertanto configurarsi anche in presenza di una sola azione di disturbo o di molestia, purché ispirata da biasimevole motivo o avente il carattere della petulanza.

Facendo riferimento ad alcune sentenze della Corte di Cassazione, costituiscono esempi di molestia: un corteggiamento continuo e insistente che sia sgradito alla persona alla quale viene rivolto; un corteggiamento non gradito realizzato con pedinamenti e telefonate continue; tagliare la ciocca di capelli al cinema alla persona che è seduta davanti; o ancora –  sempre più diffuse purtroppo – le molestie sessuali sul luogo di lavoro. Queste ultime possono essere determinate dal collega o dal superiore gerarchico, determinando così il rischio per il disturbatore di licenziamento per giusta causa, oppure direttamente dal datore di lavoro, nel qual caso, oltre a legittimare eventualmente le dimissioni per giusta causa, può configurare fonte di risarcimento del danno.

Il confine tra il reato di molestie e quello di atti persecutori – alias stalking – ex art 612 bis, è sempre più sottile. Invero, dalle molestie si passa al più grave reato di stalking quando la condotta del responsabile – anche in questo caso rappresentata da condotte plurime nell’arco di un tempo anche ristretto – determina uno di questi tre effetti sulla vittima:

  • un grave e perdurante stato d’ansia o di agitazione;
  • un fondato timore per la sicurezza propria o di un proprio caro;
  • un cambiamento delle abitudini di vita, evidentemente determinato dalla necessità di non incontrare il molestatore.

Ai fini della sussistenza del reato di atti persecutori, la prova del turbamento psicologico causato alla vittima deve essere ancorata non soltanto alle dichiarazioni rese dalla vittima stessa ma anche all’obiettiva natura delle condotte molestatrici.

Importante novità introdotta per la fattispecie ex art. 660 c.p. – e comune peraltro alle previsioni sugli atti persecutori – è la modifica al regime di procedibilità.

Infatti, il recente d.lgs del 10 ottobre 2022, n. 150, ha previsto una modifica al corpo dell’art. 660 c.p. statuendo la punizione del colpevole soltanto qualora sia presentata querela di parte, precisando tuttavia che si procederà d’ufficio quando il  fatto  è  commesso nei confronti di persona incapace, per età o per infermità.

Peraltro si ricordi che, essendo il reato ex art 660 c.p. di natura contravvenzionale ed essendo punito con pena alternativa dell’arresto o dell’ammenda, questo può essere ammesso all’applicazione dell’istituto giuridico dell’oblazione facoltativa di cui all’art. 162 bis c.p., con conseguente estinzione del reato.

Il contravventore potrà dunque pagare, prima che venga emesso il decreto di condanna, una somma pari alla metà del massimo dell’ammenda stabilita dalla legge, alla quale si aggiungono le spese per il procedimento.