“Terramarina” di Tea Ranno

“Terramarina” di Tea Ranno

L’applauso del mondo letterario al romanzo “L’Amurusanza” della scrittrice siciliana Tea Ranno ha costretto un doveroso poi alla sfera pubblica e privata di Agata Lipari, adesso sindaca del paese.

L’occhio sorpreso a spiare tra le righe prosperose di fatti viene invitato al palazzo della Tabbacchera la sera più luminosa dell’anno: la notte di Natale sta per scendere sulla Terra a portare il Figlio dell’Amore ai figli con un cuore superfluo.

Terramarina sarà casa sicura per la memoria sempre pronta a timbrare l’ultimo biglietto di un doloroso addio. Non lo farà mai, tanto ossessivi sono i ricordi di questa sindaca vedova fino alla morte, femmina di fuoco in tutte le vene del corpo. Terramarina è l’ago della bilancia incaricato di restare in piedi senza lamento di stanchezza, l’Amurusanza sarà il suo conforto, le impedirà di cedere al ballo del dio rancore.

“Terramarina è meta di speranza, porto di felicità al quale ognuno tende”, dove “Vado abitando quando non sono sveglia e neppure dormo”.

Agata respira di lutto, neri come la pece i suoi vestiti obbligati a coprire le curve ondeggianti, semaforo folle per tutti gli uomini del paese. L’esodo dell’amore ha lasciato la sindaca principessa triste, residuo del suo ieri trascinato nei corridoi del palazzo. A dire il vero una fotocopia d’amore c’è, sbiadita e in bianco e nero ma c’è, un amore tutto da rifare con l’aiuto di pastelli vivaci e disponibili a rinascere arcobaleno. Si chiama Andrea Locatelli, ed è torinese il Maresciallo innamorato perso della Tabbacchera.

Agata passerà il quarto Natale senza il suo Costanzo, carne e spirito rubato alla metà del letto, stretta nel suo “Lassatimi sula”. L’Amurusanza non sa morire perché impastata col sudore della solitudine stanca, la voce di Costanzo non si dà pace, insegue la vita degli altri perché la sua è specchio che non riflette, sangue secco per la colazione dei vermi.

La vigilia di Natale i pensieri si mischiano al suono delle campane cullate da Don Bruno, spetta a lui il compito di radunare il gregge del Signore. Corre il parroco, corre con un fagottino raccolto e avvolto nella tonaca nera per ripararlo dal freddo. La Tabbacchera, sarà lei la stella cometa di Luce, un giorno il mondo vedrà donna quegli occhi che adesso piangono di fame e di freddo. Agata Lipari figli non ne ha, il seme se lo portò Costanzo nella bara dietro il marmo sterile, da lui nasceranno fiori di nessuno.

“Una figlia di cuore al posto di una figlia di ventre”.

Luce l’hanno chiamata, angelo portato a casa della sindaca da mani consacrate, quelle di Don Bruno. Lui parroco vecchio è, può benedire ma figli non ne deve avere. Ha promesso ai piedi della Croce. Luce parla alla notte Santa da creatura nata due volte: dalla madre e dal primo miracolo di Gesù appena rivelato al mondo.

Mani giunte, mani intrecciate, ecco spiegato il valore di Terramarina corrispondente diretto dell’Amurusanza. Così tenace è la catena del dare che qualsiasi mano contraria sarà sacrificata sull’altare dell’ora ingiusta.

Gli sbalzi d’umore della felicità sono imprevedibili, chi si ritrova a versare la rugiada degli occhi non può che chiamare a sé tutta la pazienza del saggio. Quale altro modo per ingannare le spine?

Tea Ranno sa come trascinare il sole a picco sulla palude che ama atteggiarsi a specchio di vetro graffiato, da raggio imponente potrebbe sanare lo sfregio, ma così malridotto nessuno mai lo vorrà.

Da buona siciliana conosce uno per uno tutti gli ingredienti del piatto buono della domenica. Il re non siede mai da solo, se così fosse di chi sarebbe il re? Cosa non è un romanzo se non l’adunanza di personaggi con le corde giuste al cospetto del direttore d’orchestra? Tea Ranno non ha spartiti davanti a sé ma fiumi d’inchiostro, preziosi quaderni sui quali scrive lunghe lettere alla dignità e alla fioritura dell’anima di cui sarà eccezionale regista.

L’empatia a dosi massicce nel seno materno delle donne del Sud porta a non abbandonare la Tabbacchera nel suo grido: “Lassatimi sula”. E “sula”  Tea Ranno non la lascia, anzi, la circonda di uomini e donne affaccendati ad amare le ferite nascoste da parole pronunciate da labbra a metà.

Assai premuroso è il professor Toni Scianna, finissimo filologo, poeta per sbaglio”, innamorato della sua giovinetta Violante che gli ha dato due figli, la cornice oltre misura smorfiosa di Sarino Motta e Franca novelli sposi in tarda età, fortemente in ritardo che al pregiudizio rispondono in coro: forse che la carta d’identità ha mai ripudiato la delizia di un bacio?

La neve prova a stordire paure, prova e fallisce in quel subito” tipico di chi non teme il fantasma ma la voce che lo ha svegliato. Consolare l’ultimo accende d’Amurusanza le case a memoria di lutti negli inverni lunghi più di una sola stagione, tanto testardi quanto restii ad andarsene dopo la metà di un giorno.

“E il tempo si siede. È un bambino scalzo che le si accoccola accanto e con la sabbia di Terramarina comincia a giocare”. L’uso del dialetto regala alla mente uno scialle di pizzo antico sotto il sole del Mediterraneo.

Sole siciliano fuoco di passione per la terra femmina maritata con il vulcano vizioso di fumo. Meraviglie del Sud con tutti i suoi sapori di storia, cucina, tradizioni.

Terramarina è isola di mare emersa per quell’Amurusanza di sensi sulla bocca forestiera eppure quasi parente, appena un girotondo di terra lontano. La lingua al sapore di sale canta il dialetto di un’isola a due passi dalla stella più vicina alla Terra.

Fonte foto: Google/Ibs