L’arte di essere fragili di Alessandro D’Avenia

L’arte di essere fragili di Alessandro D’Avenia

Lo scrittore Alessandro D’Avenia incontra lo scrittore Giacomo Leopardi. A due secoli di distanza, i due cultori della letteratura si riconoscono nelle meraviglie dell’anima affine. Il punto interrogativo è immortale, di più, il tempo lo aiuta a moltiplicarsi nella semina in attesa di risposte sempre in ritardo. La cintura della vita abbraccia diversi quesiti molti dei quali sono destinati a gironzolare nelle ore del giorno, ma soprattutto nell’ora in cui il tramonto matura sopra l’orizzonte. Come lettera tempestata di punti nodosi, l’umanità combatte  con le virgole che fanno ben sperare in un futuro saldo a se stesso.

L’origine del come non è semplice da scoprire, il prof. D’Avenia ci invita ad assistere al dialogo improbabile con il Professore Universale, perché allievi di Giacomo Leopardi siamo tutti, dalla culla alla bara figli adottivi di un’umana virtù, amante segreta di Signora Vita.

L’arte di essere fragili” aspira ad essere uno Zibaldone a firma giovane di un professore molto attento alla fragilità dei germogli seduti sui banchi, in attesa di diventare solide querce o profumate rose di un giardino abortito dal cemento delle città. In questo illuminato epistolario è possibile incontrare la parola senza eguali dello spirito del Poeta di Recanati, “L’Infinito“, “Il passero solitario“, “Alla luna“, nonché le più o meno brevi elaborazioni dell’anima fragile.

Il prof. D’Avenia ben conosce l’età di transizione dei suoi alunni, che la scuola sia a Palermo, Roma o Milano è dettaglio di utilità marginale, il nodo da sciogliere è itinerante negli sguardi acerbi e nei sorrisi filtrati da disagi refrattari a ogni tipo di cura se non l’Ascolto. La tristezza dell’età felice è un paradosso per l’adulto sordo a quel giovane silenzio assillato da domande, Alessandro D’Avenia acquieta l’arsura dell’adolescente agitato dal dubbio.

La lettura concentra il pensiero in un eremo di cui ha necessariamente bisogno, fuori dal coro, lontano dai giudizi fuorvianti l’epicentro aiuta a partorire la scossa della cruda realtà. Caro Giacomo, anche se indegni della tua confidenza, aiutaci a rovistare tra le pieghe dell’anima laddove si cela il bel volto segnato dagli eventi maldestri della vita.

Rapimento, improvvisa manifestazione della parte più autentica di noi, quel che sappiamo di essere a prescindere da tutto: risultati scolastici, successi lavorativi, giudizi altrui e l’esercito minaccioso di fatti che vorrebbero costringerci entro i confini della triste regione dei senza sogni… Tu (Giacomo) mi hai insegnato che il rapimento non è il lusso che possiamo concederci solo ogni tanto, ma la stella polare di una vita intera“.

Seduti sull’altalena precaria la vertigine tormenta il cuore della fragilità sempre più vigorosa, sempre meno cara all’energia vitale di un battito in piena evoluzione. Occorre adoperarsi in un inchino di riverenza al Poeta per assorbire il suo concetto di Felicità, inusuale forse, perché stranamente allo sguardo spietato del fallimento.

Caro Giacomo, tu mi hai svelato il segreto per far fiorire un destino umano intuito nell’adolescenza. Solo la fedeltà al proprio rapimento rende la vita un’appassionante esplorazione delle possibilità e le trasforma in nutrimento, anche quando la realtà sembra sbarrarci la strada”.

Leggendo Leopardi desta meraviglia l’incontro con l’uomo innamorato di ogni singolo essere vivente della natura, l’uomo così introverso, fasciato nella sua cornice grigia canta la bellezza dei suoi desideri delusi. Non smette mai di amarli, di proteggerli dagli inverni nemici. Chi convive con la solitudine trova in Leopardi un vademecum per uscire dal limite dentro cui si è chiuso, perché chi più di un innamorato respinto  conosce il sentiero minato da cui fuggire?

Della sua fragilità, il padre della letteratura italiana tesse le lodi del suo cielo contrario, lo magnifica, lo celebra in tutte le sue disgrazie accolte con anima mesta al contempo accerchiata da un alone di gioia.
L’Infinito lo ha sedotto.

Alessandro D’Avenia condisce il saggio con le lettere dei suoi studenti palermitani, il professore sa bene che il Padre della poesia incrocia mani pallide e nervose, i canti devono sedare i fulmini nonché dare linfa vivace alla mente rapita. A chi si chiede qual è la ragione per cui il titolo del saggio accosta l’arte ai sentimenti umani, si consiglia di fare una breve riflessione sull’identità psichica da considerare come la chiave segreta di ogni pensiero. Come un artista in balia del suo tremore davanti a una tela bianca, il martire della personalità fragile schizza sensibilità su esistenze cieche di quell’immenso splendore.

Nonostante la caducità fisica, il Poeta chiede a se stesso di vestirsi di stupore e tradurlo in poesia, quasi una preghiera di ringraziamento a Dio per averlo ammesso nel giardino della Creazione. L’arte di essere fragili è una confessione di umiltà spesso biasimata da chi convive con il proprio eccesso di vuoto, poi un giorno il sole sorge apposta per consegnare il verdetto scritto sopra una pergamena color del cielo: il mittente della carezza di lode è identificato dalla Santa Benedizione.

Dell’ amor proprio offeso scrive Alessandro D’Avenia, che così apre il saggio: “Mi sembra che stiamo dimenticando l’arte di essere felici. Troppo concentrati sui risultati anziché sulle persone, trascuriamo di prenderci cura di noi stessi come esseri viventi, cioè chiamati a essere di giorno in giorno più vivi, capaci di un destino inedito, e ci accontentiamo di attraversare stancamente la ripetizione di giorni senza gioia”.

Prestiamo tanta attenzione al carapace e trascuriamo quel sentire che modella i lineamenti dell’autentica bellezza: ogni sera l’io allo specchio chiede perdono prima di avvicinarsi al cuscino della coscienza. Siamo Luce perduta nelle illusioni oscurate da un’eclisse lunga un inverno, abbiamo permesso al tempo di scordarsi di noi perché siamo stati ammaliati da canti di sirene mediocri, questo è l’epilogo triste di una felicità fragile forse appena un’ora vissuta.

È necessario perdersi per poi ritrovarsi guariti da ferite invisibili curate dal farmaco tempo, guida e bussola di consapevolezza per ciascuno dei singoli sensi, pari a un tuffo nell’Infinito paradiso del circuito mentale.

Così tra questa
immensità s’annega il pensier mio;
e il naufragar m’è dolce in questo mare“.

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