Inno di Mameli, simbolo per eccellenza della Repubblica Italiana: origini, testo integrale e spiegazione

Inno di Mameli, simbolo per eccellenza della Repubblica Italiana: origini, testo integrale e spiegazione

ITALIA – L’Inno di Mameli, conosciuto anche come “Fratelli d’Italia“, riprendendo il primo verso, è l’inno nazionale italiano. Composto nell’autunno del 1847, fu uno dei canti più in voga durante il Risorgimento, destinato a diventare molto di più anche nei decenni a venire.

Le parole furono scritte dal patriota Goffredo Mameli, mentre curò la parte musicale Michele Novaro, entrambi di Genova. In origine si trattava di una poesia intitolata “Il Canto degli Italiani“, composta in occasione del centenario della cacciata degli Austriaci da Genova avvenuta nel 1746.

Divenne presto un vero e proprio inno tanto è vero che nel 1862 Giuseppe Verdi lo inserì nell'”Inno delle Nazioni” durante l’Esposizione Universale di Londra e il maestro Arturo Toscanini lo eseguì, nel 1915, in un concerto per l’intervento italiano nella Grande Guerra.

Essendo stato scritto da un autore repubblicano, però, venne proibito dalla polizia sabauda e anche da quella austriaca. Addirittura la sua interpretazione divenne reato politico sino alla Prima Guerra Mondiale. Poi, dopo mille “peripezie”, arrivò la svolta.

Fu nel 2 giugno 1946, con la proclamazione della Repubblica, che “Il Canto degli Italianisostituì la “Marcia Reale, inno patriottico del Regno d’Italia sin dal 14 marzo 1861, assumendo il nome di “Inno di Mameli“.

Le origini dell’Inno di Mameli

Per quanto riguarda le origini dell’Inno, la testimonianza più accreditata è quella riportata da Carlo Alberto Barrili, poeta e amico di Mameli.

Proprio lui racconta che si trovava a Torino a casa di un altro patriota a parlare di musica e politica quando a un certo punto arrivò un ospite che porse un foglio a Michele Novaro dicendogli che era da parte di Goffredo.

Colà, in una sera di mezzo settembre, in casa di Lorenzo Valerio, fior di patriota e scrittore di buon nome, si faceva musica e politica insieme. Infatti, per mandarle d’accordo, si leggevano al pianoforte parecchi inni sbocciati appunto in quell’anno per ogni terra d’Italia, da quello del Meucci, di Roma, musicato dal Magazzari – Del nuovo anno già l’alba primiera – al recentissimo del piemontese Bertoldi – Coll’azzurra coccarda sul petto – musicata dal Rossi“, scrive.

Prosegue: “In quel mezzo entra nel salotto un nuovo ospite, Ulisse Borzino, l’egregio pittore che tutti i miei genovesi rammentano. Giungeva egli appunto da Genova; e voltosi al Novaro, con un foglietto che aveva cavato di tasca in quel punto: – To’ gli disse; te lo manda Goffredo“.

Novaro, quindi, visibilmente emozionato, si sedette al pianoforte e decise di comporre una musica proprio per quei versi.

Il racconto prosegue: “Il Novaro apre il foglietto, legge, si commuove. Gli chiedono tutti cos’è; gli fan ressa d’attorno. – Una cosa stupenda! – esclama il maestro; e legge ad alta voce, e solleva ad entusiasmo tutto il suo uditorio. – Io sentii – mi diceva il Maestro nell’aprile del ’75, avendogli io chiesto notizie dell’Inno, per una commemorazione che dovevo tenere del Mameli – io sentii dentro di me qualche cosa di straordinario, che non saprei definire adesso, con tutti i ventisette anni trascorsi. So che piansi, che ero agitato, e non potevo star fermo“.

Dallo sconforto alla svolta

Poi, però, un po’ sconfortato per il risultato finale, Michele Novaro se ne andò a casa e, ancora emozionato, corse al suo pianoforte e riprodusse quello che riusciva a ricordare di quei versi.

Mi posi al cembalo, coi versi di Goffredo sul leggio, e strimpellavo, assassinavo colle dita convulse quel povero strumento, sempre cogli occhi all’inno, mettendo giù frasi melodiche, l’un sull’altra, ma lungi le mille miglia dall’idea che potessero adattarsi a quelle parole. Mi alzai scontento di me; mi trattenni ancora un po’ in casa Valerio, ma sempre con quei versi davanti agli occhi della mente. Vidi che non c’era rimedio, presi congedo e corsi a casa. Là, senza neppure levarmi il cappello, mi buttai al pianoforte“, aggiunge.

E ancora: “Mi tornò alla memoria il motivo strimpellato in casa Valerio: lo scrissi su d’un foglio di carta, il primo che mi venne alle mani: nella mia agitazione rovesciai la lucerna sul cembalo e, per conseguenza, anche sul povero foglio; fu questo l’originale dell’inno Fratelli d’Italia“.

Nacque così l’Inno nazionale italiano.

Mai inno ufficiale

Quel che non tutti sanno è che l’Inno di Mameli, in realtà, non è mai stato dichiarato tale tanto è vero che, nel 2006, alcuni senatori presentarono una proposta di modifica della Costituzione, in modo tale da inserire, all’articolo 12, questa dicitura: “L’inno della Repubblica è ‘Fratelli d’Italia‘”, proprio a volerne rimarcare l’ufficialità. Tale proposta non vide la luce.

Ecco parte del contenuto del disegno di legge: “Appare davvero singolare che un Paese che annovera nel suo repertorio normativo più di centomila leggi non abbia trovato spazio per una semplice e breve disposizione legislativa capace di attribuire dignità formale all’inno nazionale, che rimane ancora ignorato“.

Eppure ‘Fratelli d’Italia’ è un inno-distintivo, sa ancora toccare il cuore dei cittadini e l’immaginario collettivo della nazione, sintetizza un patrimonio di valori nazionali ed emoziona quanto se non più della muta bandiera“, si prosegue.

Ancora: “I motivi di questa ‘dimenticanza’ non sono chiari. Forse si è dato per scontato. Il nostro è certamente tra i migliori delle varie nazioni, è un inno che va ‘alla carica’ come i loro giovani autori andavano alla conquista della libertà e dell’indipendenza, con entusiasmo, semplicità e spontaneità“.

Una modifica che guarda al futuro

Una proposta di modifica che consenta anche una riflessione sui valori della democrazia, che vada oltre il riconoscimento formale di un inno. Si è scelta, pertanto, la strada – più lunga e contorta – della modifica Costituzionale. Ciò ha un profondo e ulteriore significato anche per i giovani, futuro del domani.

I senatori scrivono: “Crediamo sia importante ed educativo per le giovani generazioni trovare simboli che diano il senso di appartenenza a una comunità, che abbiano il valore evocativo della propria storia, del proprio passato, consapevoli che un paese che non ha memoria patria è come una persona senza passato. Non avere cognizione del proprio passato rende più difficile proiettarsi nel futuro“.

In quest’Italia che cambia, in un contesto internazionale che si modifica non senza gravi traumi, forse è giusto rivalutare i simboli, salvaguardare le matrici di un popolo, i riferimenti culturali e tra questi anche l’inno nazionale, che dal passato ci porta al futuro, senza retorica o malinteso nazionalismo“, si conclude.

15 novembre 2017: l’ufficializzazione

L’ufficializzazione dell’Inno di Mameli, però, arriva dopo molti anni e dopo vari tentativi da parte delle diverse legislature: nel 2012 è promulgata una legge che prevede che sia insegnato nelle scuole, al fine di promuovere il senso di cittadinanza tra gli studenti.

Soltanto il 15 novembre 2017, dopo 71 anni di provvisorietà, “Il Canto degli Italiani” viene riconosciuto ufficialmente l’Inno della Repubblica Italiana.

Il testo integrale

L’Inno di Mameli consta di 5 strofe, anche se di solito – in occasione dei vari incontri internazionali – si esegue soltanto la prima e un ritornello (“Stringiamoci a coorte, siamo pronti alla morte, siamo pronti alla morte, l’Italia chiamò“). Infatti, è la parte più conosciuta e cantata dalla stragrande maggioranza degli italiani.

Vi riportiamo, quindi, il testo integrale con annessa spiegazione per ammirare l’Inno nella sua interezza.

Prima strofa

Fratelli d’Italia
L’Italia s’è desta
Dell’elmo di Scipio
S’è cinta la testa.
Dov’è la Vittoria?
Le porga la chioma
Chè schiava di Roma
Iddio la creò.
Stringiamci a coorte
Siam pronti alla morte
L’Italia chiamò

Qui, in questa prima strofa, si trova la descrizione della situazione politica italiana, tra divisioni e contrasti interni. Si crea così un parallelismo con Roma ai tempi delle Guerre Puniche, quando Scipione trasferì lo scontro in Africa portando alla vittoria dei Romani. “Stringiamci a coorte” è un’esortazione a presentarsi alle armi, rimanendo compatti, disposti anche a morire per la liberazione dall’oppressore straniero.

Seconda strofa

Noi siamo da secoli
Calpesti, derisi,
Perché non siam popolo,
Perché siam divisi.
Raccolgaci un’unica
Bandiera, una speme:
Di fonderci insieme
Già l’ora suonò.
Stringiamci a coorte
Siam pronti alla morte
L’Italia chiamò.

La seconda strofa è un invito a superare i dissidi e i conflitti unendo tutti i popoli. Il desiderio di essere una sola realtà che si muove all’unisono verso ideali comuni. Si evince anche il desiderio di raccogliersi sotto un’unica bandiera.

Terza strofa

Uniamoci, amiamoci,
l’Unione, e l’amore
Rivelano ai Popoli
Le vie del Signore;
Giuriamo far libero
Il suolo natìo:
Uniti per Dio
Chi vincer ci può?
Stringiamci a coorte
Siam pronti alla morte
L’Italia chiamò.

Ancora si ribadisce la necessità di essere uniti e di far trionfare l’amore. Solo così, infatti, si arriverà alla vittoria. Nella terza strofa, tra l’altro, si percepisce a pieno anche un’intonazione religiosa.

Quarta strofa

Dall’Alpi a Sicilia
Dovunque è Legnano,
Ogn’uom di Ferruccio
Ha il core, ha la mano,
I bimbi d’Italia
Si chiaman Balilla,
Il suon d’ogni squilla
I Vespri suonò.
Stringiamci a coorte
Siam pronti alla morte
L’Italia chiamò.

Nella quarta strofa si richiamano personaggi e eventi che furono significativi per quanto riguarda la cacciata degli invasori stranieri.

Tra questi, ricordiamo la battaglia di Legnano vinta dalla Lega dei Comuni Lombardi contro l’imperatore del Sacro Romano Impero e Re d’Italia Federico I di Svevia, il Barbarossa; le gesta di Ferruccio Ferrucci, catturato nella battaglia di Gavignana contro le truppe di Carlo V e ucciso da Fabrizio Maramaldo a capo delle truppe imperiali; il valore e il coraggio del leggendario Balilla, simbolo della rivolta popolare di Genova contro la coalizione austro-piemontese; i Vespri Siciliani, insurrezione popolare contro la dominazione Angioina del 1282.

Quinta strofa

Son giunchi che piegano
Le spade vendute:
Già l’Aquila d’Austria
Le penne ha perdute.
Il sangue d’Italia,
Il sangue Polacco,
Bevé, col cosacco,
Ma il cor le bruciò.
Stringiamci a coorte
Siam pronti alla morte
L’Italia chiamò.

L’ultima e quinta strofa è dedicata all’Impero d’Austria che già era in fase di decadenza, ma anche all’Impero Russo che, con l’Austria, partecipò alla spartizione della Polonia nel 1848.