Don Pino Puglisi, “u parrineddu” di Brancaccio che spaventava la mafia

Don Pino Puglisi, “u parrineddu” di Brancaccio che spaventava la mafia

PALERMO –Me l’aspettavo“. Le ultime parole di don Pino Puglisi, l’ultimo sorriso. Poi un colpo di pistola sparato alla nuca con una 7,65 munita di silenziatore.

Erano le 20,40 circa del 15 settembre 1993, il giorno del 56esimo compleanno di padre Giuseppe Puglisi. Aveva lavorato molto per la sua comunità, come sempre, e si apprestava a fare ritorno a casa. Lo hanno trovato a terra in una pozza di sangue con le chiavi ancora in mano, a pochi centimetri dal portone del civico numero 5 di piazzale Anita Garibaldi. Ad allertare i vicini era stato il tonfo sordo del suo corpo sull’asfalto.

La chiamata ai soccorsi e la corsa all’ospedale Buccheri – La Ferla: il sospetto di un malore improvviso, la scoperta del piccolo foro di entrata del proiettile, il cuore che rallenta il suo battito fino a cessare del tutto. È morto sereno don Pino Puglisi. Dopo mesi di paura (più per gli altri, che per sé) in cui il suo sorriso si era spento, il prete aveva ritrovato negli ultimi istanti la pace figlia della fede.

La stessa fede che a 16 anni lo aveva spinto a entrare in seminario. Ordinato sacerdote il 2 luglio 1960, per tutta la vita si è occupato di giovani, poveri e periferie. Un prete di strada che sottraeva i ragazzi al giogo dei boss.

Don Pino Puglisi, “u parrineddu”

Nato a Brancaccio il 15 settembre 1937, figlio di una sarta e di un calzolaio, don Pino Puglisi, dalla corporatura esile e dalla bassa statura, era soprannominato “u parrineddu“. Allegro, sapeva ridere di se stesso: delle proprie orecchie a sventola, delle grandi mani e dei grandi piedi. Parlava piano, cercando le parole giuste. Ascoltava con attenzione. Mite, ma cocciuto. Sguardo trasparente e modi semplici, accoglieva con affetto chiunque incontrasse. Lavorava senza sosta, dedicando tutto il suo tempo agli altri. Un impegno che, puntualmente, lo faceva arrivare tardi agli appuntamenti. Capacità innate da maestro e una meravigliosa attitudine a comunicare coi giovani. Aveva scelto di abbracciare la povertà francescana: rinunciava a riempiere il frigorifero per fare il pieno alla macchina e poter così raggiungere chiunque avesse bisogno di lui. Intellettuale raffinato, nella sua casa popolare aveva stipato oltre 3.500 volumi.

Fonte foto: Facebook – Beato Padre Pino Puglisi

È il ritratto di un uomo semplice, che viveva della propria fede e per aiutare gli altri. È il ritratto di un uomo che per la sua attività pastorale Cosa nostra ha classificato come spina nel fianco, un obiettivo da eliminare. Eppure più che la lotta alla mafia, a padre Pino Puglisi (“3P“, come lo avevano affettuosamente soprannominato gli studenti ai quali insegnava matematica e religione) stava a cuore la povera gente. È per questo che accettava gli incarichi gravosi da cui molti si tenevano alla larga e, invece, rifiutava chiese ricche e posti di prestigio. Concreto e coerente, prestava attenzione al vissuto quotidiano della gente e ai problemi, reali e tangibili, di emarginazione urbana.

La predicazione del perdono a Godrano

Nel 1970, a Godrano, paesino di montagna del Palermitano, aveva dovuto affrontare una delle prove più dure del suo sacerdozio. La piccola comunità, infatti, era dilaniata dalla faida tra due clan che – tra gli anni ’50 e ’60 – aveva provocato una quindicina di omicidi. Porte chiuse in faccia e silenzi lo avevano convinto di non saper più fare il sacerdote. Ma, testardo come era, attraverso il suo impegno coi più piccoli seppe vincere le ritrosie delle famiglie e far riconciliare le due fazioni rivali predicando il perdono. La sua canonica, non a caso, era conosciuta come “Colosseo”, per la porta sempre aperta a tutti.

L’attività pastorale a Brancaccio

Anche i primi mesi a Brancaccio furono difficili. Il 29 settembre 1990 aveva accettato la nomina a parroco della chiesa di San Gaetanoper obbedienza e per amore“. Subito aveva vietato le costose feste religiose con cantanti in piazza e fuochi d’artificio. Aveva detto no anche alla raccolta di denaro in strada coi tamburi ed estromesso dalla prima fila durante le processioni gli “uomini d’onore“. Aveva inoltre allontanato i rappresentati della politica che si presentavano in chiesa per cercare voti, con un più che eloquente: “Sono allergico ai politici“.

A Brancaccio l’impegno sociale e civile di don Pino Puglisi era costante, animato dalla consapevolezza che “se ognuno fa qualche cosa, allora si può fare molto“. Insegnava che “non è da Cosa nostra che potete aspettarvi un futuro migliore per il vostro quartiere” e che “i diritti non vanno chiesti come favori“. Parole e atti che interferivano con l’ordine mafioso retto nel quartiere dalla cosca dei fratelli Giuseppe e Filippo Graviano che, grazie al benestare di Totò Riina, avevano ereditato il potere dal “papa”, Michele Greco.

Le minacce

Corsi di alfabetizzazione, catechesi e attività varie animavano la vita della parrocchia. Il 29 gennaio 1993 era stato inaugurato, tra non poche difficoltà, il Centro di accoglienza Padre Nostro, divenuto in breve tempo punto di riferimento per giovani, anziani e famiglie del quartiere. Più “3P” faceva breccia a Brancaccio, più aumentavano le minacce, a lui e a chi lo aiutava nella sua opera. Ruote dell’auto tagliate, telefonate anonime e lettere minatorie; le porte di casa dei suoi collaboratori bruciate in contemporanea di notte; molotov lanciate contro la chiesa.

Più il cerchio si stringeva, più don Pino Puglisi cercava di tenere al riparo chi gli stava vicino: non parlava delle intimidazioni ricevute in prima persona, nemmeno quando si era presentato con un labbro spaccato. A chi tentava di capire cosa stesse accadendo rispondeva: “Il massimo che possono farmi è ammazzarmi. E allora?“. A testimoniare che per don Puglisi la sua missione sacerdotale veniva prima della salvezza della propria vita terrena.

L’impegno contro la mafia

Ai giovani indicava come modelli Falcone e Borsellino e promoveva la cultura della legalità e dell’onestà, da contrapporre a quella della criminalità organizzata, impregnata di violenza e morte. Con l’antipreghiera del “U patrinnostru ru picciottu” (Il Padre Nostro del picciotto al padrino), padre Puglisi aveva analizzato la mentalità mafiosa, incentrata sul rispetto del boss, l’omertà, l’arroganza, la vendetta, il falso onore, l’illegalità, l’odio. I codici mafiosi, del resto, stravolgono termini che indicano valori positivi come famiglia, onore e dignità e li caricano di significati diametralmente opposti.

Supportato dalla fede e dalle accuse contro Cosa nostra pronunciate da Papa Giovanni Paolo II nel corso della visita in Sicilia del maggio 1993, “3P” aveva tentato in una delle ultime omelie di lanciare un messaggio a chi lo taglieggiava: “La Chiesa ha già colpito con la scomunica chi si è macchiato di atroci delitti come i cosiddetti uomini d’onore. Io posso soltanto aggiungere che gli assassini, coloro che vivono e si nutrono di violenza, hanno perso la dignità umana. Sono meno che uomini, si degradano da soli, per le loro scelte, al rango di animali. […] Mi rivolgo anche ai protagonisti delle intimidazioni che ci hanno bersagliato. Parliamone, spieghiamoci, vorrei conoscervi e conoscere i motivi che vi spingono ad ostacolare chi tenta di educare i vostri figli al rispetto reciproco, ai valori della cultura e della convivenza civile“.

L’omicidio di don Pino Puglisi

Parole cadute nel vuoto, il suo omicidio era già stato deliberato: i boss erano convinti che il sacerdote stesse aiutando le forze di polizia a infiltrarsi per catturare i latitanti del quartiere. Nulla di più falso.

L’utilizzo di una pistola di piccolo calibro e il furto del borsello dovevano servire a far passare l’omicidio per una rapina finita male. Nonostante i tentativi di sviare le indagini, l’assassinio venne inserito subito nel contesto di una vendetta di matrice mafiosa grazie anche alle testimonianze rese senza paura dagli amici e dai giovani della parrocchia.

A premere il grilletto era stato Salvatore Gricoli, killer di punta della cosca di Brancaccio, supportato da Gaspare Spatuzza. Complici Luigi Giacalone, Cosimo Lo Nigro e Antonino Mangano. Tutti condannati al carcere a vita, così come i mandanti: i fratelli Giuseppe e Filippo Graviano.

Ai funerali di padre Pino Puglisi, celebrati nell’area industriale di Brancaccio, hanno partecipato 8mila persone. La salma, trasportata dall’altare della Cattedrale (dove era stata condotta direttamente dall’obitorio) al quartiere di 3P, era avanzata tra due ali di folla. Dietro al feretro, in prima fila, i bambini ai quali aveva dedicato la sua vita. Presenti anche autorità locali, magistrati e l’allora presidente della Commissione parlamentare antimafia Luciano Violante (che avrebbe dovuto incontrare pochi giorni dopo). Da Roma nessun rappresentante del governo: non era un delitto eccellente per il quale valesse la pena scomodarsi.

Beato padre Pino Puglisi

Ricordato in diverse occasioni da Papa Giovanni Paolo II quale “coraggioso testimone del Vangelo“, inserito tra i testimoni della fede del Novecento e commemorato durante il Giubileo, il 25 maggio del 2013, davanti a circa 100mila fedeli riuniti al Foro Italico di Palermo, padre Pino Puglisi è stato proclamato beato: è il primo martire della Chiesa ucciso dalla mafia.

Fonte foto: Facebook – Beato Padre Pino Puglisi