Taormina, le leggi razziali e il suicidio in mare: la storia della famiglia Kuerschner

Taormina, le leggi razziali e il suicidio in mare: la storia della famiglia Kuerschner

TAORMINA – La scelta estrema del suicidio per sottrarsi a chi voleva avere l’arbitrio di decidere della loro morte. È quella che 81 anni fa fece la famiglia Kuerschner.

Era l’11 marzo del 1939 quando la 73enne Eleonor Lindelfeld e i tre figli Arthur, Eugene e Renèe, affittarono una barca a remi a Mazzarò per allontanarsi dalla riva e, al largo, porre fine alle loro vite. Lo fecero gettandosi in acqua insieme, appesantendo i propri vestiti con delle pietre per assicurarsi che non sarebbero tornati in superficie.

La “colpa” della famiglia Kuerschner? Essere ebrea.

Da qualche settimana madre e figli erano ospiti nell’albergo taorminese Flora. Cercavano di sfuggire alle leggi razziali e sottrarsi alla crudeltà dei regimi nazista e fascista. Proprio nella loro stanza, in seguito alla scoperta del tragico gesto compiuto dai quattro, la polizia all’epoca sostenne di aver trovato una lettera secondo la quale madre e figli avrebbero scelto il suicidio in quanto stanchi della vita perché soli e senza amici. Una versione smentita dalla lettera datata 2 marzo 1939, che Arthur, giornalista radiofonico espulso dalla Germania nazista, aveva inviato a un caro amico, al quale aveva affidato i reali motivi della dolorosa decisione presa dalla famiglia: “Oggi è arrivato il momento: noi tutti quattro moriremo volontariamente-involontariamente. Il mare profondo ci accoglierà in maniera più gentile che tutti gli alti governi dei paesi che ci circondano. Riempiremo le nostre tasche con pietre, per non ritornare più a galla. La nostra decisione è stata presa già mezzo anno fa. Ci è stata resa più semplice dalla coscienza di aver fatto una vita sempre onesta e contenti di lavorare, a volte coronata anche da successi e di non aver mai fatto a nessuno del male”.

I Kuerschner si erano trasferiti in Germania dopo la fine della Prima Guerra Mondiale, che Arthur aveva combattuto col grado di capitano sul fronte italiano: un’impresa che gli era valsa decorazioni e medaglie. A Berlino, diventato cittadino tedesco, Arthur aveva ricoperto per 15 anni un ruolo ufficiale nella stazione radiofonica governativa. La sua vita e quella di tutta la sua famiglia venne, però, stravolta dall’arrivo al potere di Adolf Hitler. L’odio razziale, infatti, li costrinse a trasferirsi in Austria, dove ottennero la cittadinanza. Nel 1938, però, anche il Paese austriaco finì sotto l’egida del capo nazista. Fu a quel punto che la famiglia ebrea ungherese ripiegò in Italia, dove aveva già trovato lavoro Eugene, attivo nel mondo del cinema tedesco fino all’avvento di Hitler. Nel Bel Paese Eugene lavorò come produttore e supervisore a due film: “Ma non è una cosa seria” (1936), per la regia di Mario Camerini e la sceneggiatura di Ercole Patti e Mario Soldati, con Assia Noris e Vittorio De Sica; ed “È tornato carnevale” (1937) diretto da Raffaello Materazzo, con Armando Falconi e Mario Pisu.

Nemmeno in Italia, però, la famiglia Kuerschner era al sicuro: il decreto legge del 7 settembre 1938 n.1381, infatti, prevedeva che gli ebrei stranieri presenti sul territorio nazionale abbandonassero il Paese entro il 12 marzo 1939. Fu così che, alla vigilia di quell’ultimatum, madre e figli misero fine alle loro vite. La notizia del loro tragico decesso venne riportata nell’edizione del New York Times del 23 marzo 1939 dal corrispondente da Roma del giornale americano.

Fonte foto: New York Times

Eleonor Lindelfeld, Arthur, Eugene e Renèe Kuerschner sono sepolti nella sezione acattolica del cimitero di Taormina. Sulla lapide posta per la loro memoria è inciso: “Sotto il roseto noi riposiamo, posti vi fummo quando i giorni tristi correan per noi miseri ebrei. Fummo accolti in quest’isola dorata, lasciammo in patria il nostro avvenire. Tremendo è per la madre sceglier la morte per sé e per i figli. In barca tutti e quattro andammo, poi uno dietro l’altro in acqua ci tuffammo. Quando ci ritrovarono, le corde ancora il corpo ci cingevano”.