Bambini più intelligenti: genetica, fattori ambientali o nuove strategie educative? La crescita e il rapporto con lo spazio, il tempo e gli altri

Bambini più intelligenti: genetica, fattori ambientali o nuove strategie educative? La crescita e il rapporto con lo spazio, il tempo e gli altri

I processi evolutivi e formativi degli individui avvengono fra filogenesi e ontogenesi, tra tradizione e mutamento di ciò che si trasmette da una generazione all’altra, dai genitori ai figli, frutto dell’eredità biologica e del contributo ambientale.

Sul piano pedagogico, pertanto, sappiamo quanto sia importante la trasmissione genitoriale per la costruzione di una determinata identità.

Si affronta, dunque, un problema che riguarda le nuove modalità di trascrizione, di processazione che avviene tra le menti umane, nei bambini appartenenti a una famiglia ma anche a una comunità o a un gruppo: le possibili modalità di diffusione delle conoscenze, dei saperi, delle fantasie, dei comportamenti fondamentali per lo sviluppo e la formazione dei singoli sono fasi di trasmissione della vita psichica tra le generazioni, tracce di una dimensione passata che danno consistenza al presente.

L’azione educativa e pedagogica, nel recupero dell’etimologia di paideia (in greco antico παιδεία) depositata dagli antichi saggi greci, ha una forte pregnanza nel presente: l’educatore, l’insegnante, così come il genitore agisce in un presente di correzione e di indicazione all’azione, facendo leva sulla memoria del passato, indirizzando il bambino verso la consapevolezza dell’agire eunomico (dal greco èu, buono, e nòmos, legge) in un’ottica futura.

Sul piano etico, molti studiosi fra antropologi, psicologi e pedagogisti a noi contemporanei si sono interessati agli oggetti psichici: regole, norme, usi, costumi, linguaggi e proposte etiche che hanno rappresentato l’universo delle radici emotive autentiche. La giustizia immanente come Natura che punisce le trasgressioni è tipica dei bambini che non hanno raggiunto lo stadio delle operazione concrete, cioè fino all’età di sette o otto anni. Regole, obblighi e ordini sono considerati come “dati” esterni alla mente, inflessibili e invariabili.

Le origini del realismo morale sono le strutture cognitive e l’esperienza del bambino: i fattori cognitivi sono l’egocentrismo, che si riflette nella convinzione del bambino che tutti hanno la sua visione degli eventi, e il realismo di pensiero cioè la tendenza a reificare fenomeni psicologici come pensieri, norme o sogni, immaginandoli come entità fisiche simili alle cose.

La formazione di idee di uguaglianza, collaborazione e solidarietà di gruppo il bambino le sviluppa anche con l’interazione fra i pari, senza figure di autorità assolute esterne: il rispetto dei ruoli, compiti di responsabilità e assumere ruoli porterà progressivamente all’idea del punto di vista diverso dal proprio e al tempo stesso supererà l’egocentrismo tipico nell’origine del relativismo morale.

Gradualmente l’interesse per gli stimoli originariamente associate a ricompense dirette ed esterne (abbracci e sorrisi, ad esempio) acquistano una rappresentazione cognitiva interna tali dunque da esercitare un controllo sui comportamenti pro-sociali verso l’altruismo e lo sviluppo dell’empatia. Se il primo stadio della moralità eteronoma, realismo morale o morale di costrizione è caratteristico dei bambini che non hanno raggiunto lo stadio delle operazioni concrete, cioè i bambini fino all’età di sette o otto anni; le regole, gli obblighi e gli ordini sono considerati come “dati” esterni alla mente, inflessibili e invariabili.

E ancora, gli orizzonti formativi di molti studiosi contemporanei (Bruner, Bauman e Cambi) considerano urgenti problematiche che riguardano il bisogno d’appartenenza, di comunità, di ripristino di legami vitali con il luogo e l’etnia e la propria storia, di riappropriarsi della memoria come patrimonio comune e di identità.

A un’educazione anomica, tipica della globalizzazione, foriera di Durkheim, le neuroscienze rispondono con possibili strategie di narrazione. La narrazione, come strumento cognitivo e formale del discorso, è fondata su una logica polisemica, negoziabile e indeterminata e costituisce per il bambino soprattutto una funzione ludica e pragmatica. Un dispositivo intenzionale, ibrido di interpretazioni e di caratteri generali di funzione conativa: essa agisce sia al contesto socio-culturale d’appartenenza, tramite codici ristretti o larghi, sia sul piano della rielaborazione simbolica del reale.

Se nell’infanzia lo spazio è sincrono a un mondo meraviglioso e animistico, che si crea e si ricrea con il gioco e le attività ludiche, il tempo è immaginario e illusorio. Nella prima infanzia, il tempo diventa un diritto ai propri ritmi di apprendimento e alle proprie possibilità attentive, di sperimentazione e di gioco.

L’infanzia è un prendersi del tempo per sé, un mondo in cui l’infante, come colui che non parla, si situa in una condizione di ricevere doni, è sempre un essere preso “in cura” verso una relazione con l’altro e con la realtà. Ma se il luogo depositario dell’autentica “cura” dell’infanzia era fino al 1920 circa di selezione femminile, l’evoluzione della consapevolezza di vere rivoluzioni sociali e familiari del ruolo della donna e dell’uomo, la loro consapevolezza dei legami intessuti con sé, con gli altri, con il lavoro, con il proprio ambiente, con i propri vissuti, con il proprio “villaggio globale” e con i propri desideri, ha dato vita a una serie di connotazioni pedagogiche nuove nel sistema culturale in cui siamo iscritti.

Il pericolo, allora, non è tanto nella dissoluzione dell’infanzia o nella scomparsa di essa, quanto in quella riappropriazione dei ruoli differenti della responsabilità della funzione di matrice ecologica nei soggetti spesso indifesi e posti in una naturale condizione a cavallo fra l’essere fuori e dentro le regole e la legge.

Infine, la separatezza delle azioni dell’infanzia, la costruzione di azioni in un tempo altro rispetto a quello degli adulti, la dimensione spazio-temporale dell’ordine simbolico dominante, l’estraneità al tempo inarrestabile di prodotti culturalmente costruiti dai simboli della glocalizzazione, la sperimentazione di linguaggi musicali e sonori, verbali e simbolici, iconici e rappresentativi, animistici e metaforici non ancora consapevoli di stereotipi tipici di classificazione e di astrazione, rendono l’infanzia un’età comune a tutti, un telos (τέλος, che significa: fine, scopo o obiettivo) unificante.

Il vero obiettivo è di averne coscienza in età adulta, di preservarla e custodirla, per diffondere la cultura della vita e di individuare uno stretto legame tra sistemi educativi plurimi e ideologie di potere delle classi dominanti.

Immagine di repertorio

Carmen Valentino