Qual sfida perché l’esistenza non sia vana?

Qual sfida perché l’esistenza non sia vana?

QUESTO ARTICOLO FA PARTE DEL CONCORSO DIVENTA GIORNALISTA, RISERVATO AGLI STUDENTI DELLE SCUOLE SUPERIORI DELLA PROVINCIA DI CATANIA.

«Bisogna proporre un fine alla propria vita per viver felice. […] I fini vaglion poco in sé, ma molto vagliono i mezzi, le occupazioni, la speranza, l’immaginarseli come gran beni a forza di assuefazione… Di pensare ad essi e di procurarli. L’uomo può ed ha bisogno di fabbricarsi esso stesso de’ beni in tal modo.»

In questa citazione estrapolata dal suo Zibaldone Leopardi riassume in pochissime righe la sua concezione sull’esistenza umana, che necessiterebbe di un fine, uno scopo da raggiungere per sentirsi realizzati e felici. La felicità assoluta è, però, un’illusione creata dal piacere temporaneo, destinato a svanire molto presto.

Dunque, come porsi davanti alla vita? Qual è la sfida dell’uomo per far sì che non sia vana la sua esistenza?

Leopardi critica tra i suoi coevi chi vive di rendita e ottiene sempre tutto con la minima fatica. Per lui si tratta di “povera gente”, che nel proprio godimento e nel proprio ozio non sarà mai del tutto felice. Non conta tanto l’obiettivo che un uomo si pone, piuttosto la strada che si percorre per raggiungerlo. La felicità non ammette pigrizia, bensì richiede fatica.

Integrando ciò con la società odierna si giunge a una sconcertante conclusione: tra i giovani del nuovo millennio serpeggia sempre di più l’idea che la vita sia così “brutta” da considerare insensato darle uno scopo, o addirittura continuare a vivere; gli obiettivi in precedenza fissati svaniscono nel nulla. C’è chi si riprende da un periodo buio e chi, invece, decide di ricorrere all’“insano gesto” del suicidio (e purtroppo, oggi, i casi non sono pochi).

Leopardi è solo uno dei tanti letterati e filosofi che hanno provato a dare una spiegazione al senso dell’esistenza umana e alla felicità: gli stilnovisti vedevano ciò nella “Donna Angelo” (la Beatrice di Dante, per fare un esempio), Clemente Rebora e Mario Luzi, due poeti italiani del Novecento, contrappongono il loro senso di abbandono pessimistico nei confronti della vita alla consapevolezza del suo valore, a prescindere dalle difficoltà e dagli ostacoli.

Tutto ciò ha portato oggi a elaborare una riflessione sul tema: assistiamo ad un’invasione pericolosa del progresso, perché porta ad un’omologazione di massa che rende tutti gli individui uguali in tutto; ognuno di noi prova le stesse emozioni nello stesso momento dell’altro. Si dimentica, come direbbe Carlo Acutis (un ragazzo innamorato della vita e del computer, stroncato a soli quindici anni da una leucemia fulminante, oggi è considerato venerabile per la Chiesa Cattolica), di essere nati “originali”, per poi vivere come delle “fotocopie”. Essere se stessi implica porsi degli obiettivi e degli scopi, e dovremmo imparare ad ascoltare di più le parole di uno come Leopardi, che di certo un dono importante, sebbene ci sia stato sempre detto il contrario, l’ha amato e custodito: la vita.

Giuseppe Russo, Classe V Sez. B.S.A. – Liceo Scientifico “E. Fermi” di Paternò