Immigrazione, decisione della Cassazione: “Elevato livello di integrazione di uno straniero nel nostro Paese non è sufficiente per ottenere la protezione umanitaria”

Immigrazione, decisione della Cassazione: “Elevato livello di integrazione di uno straniero nel nostro Paese non è sufficiente per ottenere la protezione umanitaria”

Immigrazione – la Cassazione si pronuncia con la Sent. n. 4455/2018: “Il riconoscimento della protezione umanitaria al cittadino straniero che abbia realizzato un grado adeguato d’integrazione sociale nel nostro Paese, non può escludere l’esame specifico ed attuale della situazione soggettiva ed oggettiva del richiedente con riferimento al Paese di origine”.

In Italia il fenomeno migratorio assume ogni giorno dimensioni sempre più elevate. Si stima che, a decorrere dal 1 gennaio 2018 fino al 22 marzo 2018, il numero di migranti sbarcati in Italia è di 6.161, di cui 4.399 provenienti dalla Libia.

Si fa presto a parlare di migranti economici, ma non sempre è così. Molti giovani provengono da Paesi del continente africano in cui sono in atto strazianti guerre civili tra etnie contrapposte. Le diatribe tra i villaggi diventano sempre più imponenti e non esistono governi centrali che tutelino adeguatamente la popolazione dalle violenze.

Una volta sbarcati in Italia, l’obiettivo è uno: chiedere l’asilo politico (status di rifugiato) o la protezione sussidiaria o, ancora, il permesso di soggiorno per motivi umanitari. È un loro diritto, come sancito dal d.lgs. 286/1998 (Testo Unico in materia di immigrazione).

Nella concessione dell’asilo politico o della protezione sussidiaria o del permesso di soggiorno umanitario non si può prescindere dalla situazione personale, soggettiva ed oggettiva, del migrante nel Paese di origine né si può prescindere dal livello di integrazione che lo stesso ha nel frattempo raggiunto in Italia, in attesa che le autorità competenti prendano una decisione sulla sua vicenda.

La Suprema Corte di Cassazione, con sentenza n. 4455/2018, emessa il 12 dicembre 2017 e depositata lo scorso 23 febbraio, ha dettato un principio fondamentale in materia.

Nella specie, con sentenza n. 1238/2016 la Corte d’Appello di Bari, investita dell’impugnazione proposta da un cittadino gambiano, avverso l’ordinanza del Tribunale della medesima città, ha riconosciuto allo stesso il diritto al rilascio del permesso di soggiorno per motivi umanitari ex art. 5, comma 6, d.lgs. 286/1998. Accertata l’insussistenza del diritto al riconoscimento dello status di rifugiato e della protezione sussidiaria, la Corte d’Appello ha tuttavia rilevato che lo straniero si trovava in Italia da oltre tre anni, era pienamente integrato nel nostro tessuto sociale ed aveva un lavoro stabile con un’adeguata retribuzione. Per queste ragioni ha disposto il rilascio del permesso di soggiorno umanitario.

Avverso questa pronuncia ha proposto ricorso per cassazione il Ministero dell’Interno. Quest’ultimo, in particolare, ha denunciato la violazione e falsa applicazione dell’art. 5, comma 6, d.lgs. 286/1998, evidenziando che la Corte d’appello ha erroneamente valorizzato, quale presupposto del rilascio del permesso di soggiorno per motivi umanitari, l’integrazione sociale dello straniero. Tale livello di integrazione, raggiunto dallo straniero soggiornante provvisoriamente in Italia in attesa che venga definita la sua situazione, non può costituire, di per sé solo, un motivo di concessione del permesso di soggiorno per motivi umanitari.

Gli Ermellini, accogliendo il ricorso del Ministero dell’Interno e rinviando alla Corte d’Appello di Bari in diversa composizione per una nuova decisione, hanno statuito un principio fondamentale: “Il riconoscimento della protezione umanitaria (e quindi del permesso di soggiorno per motivi umanitari n.d.r.) al cittadino straniero che abbia realizzato un grado adeguato d’integrazione sociale nel nostro Paese, non può escludere l’esame specifico ed attuale della situazione soggettiva ed oggettiva del richiedente con riferimento al Paese di origine, dovendosi fondare su una valutazione comparativa effettiva tra i due piani al fine di verificare se il rimpatrio possa determinare la privazione della titolarità e dell’esercizio dei diritti umani, al di sotto del nucleo ineliminabile, costitutivo dello statuto della dignità personale, in comparazione con la situazione d’integrazione raggiunta nel paese di accoglienza”.

L’elevato livello di integrazione raggiunto dallo straniero nel nostro Paese non è, dunque, di per sé sufficiente per ottenere la protezione umanitaria. Resta indispensabile la valutazione della situazione che vivrebbe nel Paese di origine, in caso di rimpatrio: ove non corra il rischio di essere privato dei suoi diritti umani, non può essergli concessa la protezione umanitaria in Italia, a prescindere dal grado di integrazione raggiunto nel nostro tessuto sociale.