Intelligenza artificiale: dalle “origini filosofiche” al ruolo nella società moderna

Intelligenza artificiale: dalle “origini filosofiche” al ruolo nella società moderna

Negli ultimi anni, la parola “intelligenza artificiale” è all’ordine del giorno: basti pensare ai numerosi siti di AI bot online, come ChatGPT, Gemini, e Copilot, che costituiscono un supporto per ognuno di noi. Ormai, se abbiamo bisogno di una ricetta, di uno schema riassuntivo o persino di un consiglio, molti di noi non esitano un minuto a digitare la domanda e inviarla al “bot di fiducia”.

Non è finita qui: oggi è possibile utilizzare sistemi di intelligenza artificiale persino per apprendere una lingua straniera o per comunicare pur non conoscendo l’idioma.

L’AI è un argomento molto complesso, tanto da aver portato all’istituzione di un corso di laurea in Filosofia e Intelligenza Artificiale all’Università La Sapienza di Roma per approfondire i fondamenti, le applicazioni e le conseguenze sociali ed etiche.

Ma quando è nata effettivamente l’intelligenza artificiale?

La nascita dell’IA

Il termine “Intelligenza Artificiale”, riferito all’intelligenza delle macchine, è stato introdotto dallo scienziato informatico statunitense John McCarthy durante un celebre convegno svoltosi nel 1956 al Dartmouth College, nel New Hampshire. Questo evento segna ufficialmente la nascita dell’IA.

In quell’occasione, McCarthy, Marvin Minsky, Claude Shannon e Nathaniel Rochester si proposero di riprodurre su un computer alcune delle attività mentali dell’uomo. Il calcolatore digitale non si limitava all’elaborazione di dati numerici, ma poteva elaborare dati di qualsiasi tipo, adeguatamente codificati. Gli ambiti di applicazione dell’IA comprendono la dimostrazione automatica di teoremi, il trattamento automatico del linguaggio naturale, scritto e parlato, l’interpretazione di immagini e della visione, la robotica, i giochi e i cosiddetti “sistemi esperti“, cioè programmi software in grado di risolvere problemi simili a quelli affrontati da esperti umani in specifici domini applicativi.

Hobbes e il ragionamento come calcolo

Risalendo al Seicento, possiamo trovare il filosofo inglese Thomas Hobbes, che assimila il ragionamento a un calcolo. Nel quinto capitolo del “Leviatano” (1651), Hobbes spiega che ragionare equivale a calcolare. Infatti, ogni affermazione è una somma di nomi, perché essa indica che soggetto e predicato sono nomi della stessa cosa.

Per esempio, quando si afferma che “l’uomo è un animale”, si intende che il nome “animale” appartiene alla stessa categoria a cui appartiene il nome “uomo”. Invece, la negazione è una sottrazione di nomi: indica che soggetto e predicato sono nomi di cose diverse. Infine, il sillogismo, nel senso aristotelico del termine (come nel caso di “Tutti gli uomini sono mortali. Socrate è un uomo. Dunque Socrate è mortale”), è l’addizione di tre nomi.

Leibniz e l’arte combinatoria

Qualche anno dopo queste riflessioni, il filosofo tedesco Gottfried Leibniz, nella sua opera “Dissertazione sull’arte combinatoria” (1666), riprende l’idea di Hobbes che il pensiero è un calcolo e sostiene che nulla può impedire a una macchina calcolatrice di concatenare una serie di proposizioni elementari e di giungere a deduzioni logiche.

Leibniz riconosce a Hobbes l’originalità della sua concezione: “Quel profondissimo scrutatore dei principi in tutte le cose che fu Thomas Hobbes affermò giustamente che ogni opera della nostra mente è calcolo (computatio), e che da essa si ottiene o la somma addizionando, o la differenza sottraendo […]. Allo stesso modo, pertanto, due sono i segni primari degli algebristi e degli analisti, “+” e ““, così come due sono le copule, “è” e “non è“: nel primo caso la mente compone, nel secondo divide”. Leibniz ritiene che un giorno sarà possibile esprimere ogni ragionamento come un calcolo matematico, cosicché, invece di discutere, si possa dire: “Calculemus!”

Le tecnologie prenderanno il sopravvento?

Come discusso qualche mese fa in merito alle tecnologie che facilitano la comunicazione in lingua straniera, cresce il timore che le intelligenze artificiali possano un giorno superare e persino dominare l’uomo.

Alan Turing, nel suo articolo del 1950 intitolato “Computing Machinery and Intelligence”, pubblicato sulla rivista Mind, introduce il concetto oggi noto come “test di Turing”. Secondo questo test, una macchina può essere considerata “pensante” se, durante una conversazione per iscritto con un interlocutore umano, quest’ultimo non riesce a distinguere se le risposte provengono da una macchina o da un altro essere umano.

Nel campo della filosofia e del cinema, il film The Imitation Game di Morten Tyldum, ispirato alla vita di Turing, ha stimolato ampie discussioni su questo test. Si ritiene che almeno tre volte un computer abbia superato il test di Turing, anche se non tutti concordano sulla validità di questi risultati e sulla loro interpretazione.

Cartesio esclude l’IA

Facendo un tuffo nel passato, René Descartes, noto come Cartesio, esclude invece la possibilità dell’IA. Nella parte quinta del “Discorso sul metodo” (1637), egli sostiene che una macchina non potrà mai eguagliare il linguaggio dell’uomo, contraddicendo così, in anticipo, le speranze di Turing. Secondo Cartesio, se venisse costruita una macchina con le sembianze di un animale non razionale, come una scimmia, non si potrebbe distinguere la macchina dall’animale.

Al contrario, nel caso in cui venisse costruita una macchina con aspetto umano, sarebbe possibile distinguerla da un vero uomo per due motivi fondamentali. In primo luogo, la macchina, anche se riuscisse a parlare, non potrebbe “dar luogo ad azioni corporee che producano qualche mutamento nei suoi organi“. In secondo luogo, la macchina potrebbe svolgere molte attività con successo, ma solo in modo limitato rispetto alla programmazione ricevuta, mentre l’uomo, attraverso la ragione, può agire in modo diverso in un’infinità di circostanze.

Secondo Cartesio, ciò che è meccanico non è flessibile e quindi non può produrre frasi, pensieri e comportamenti originali come quelli umani. La caratteristica distintiva del linguaggio umano è l’originalità e la creatività, che, a suo giudizio, dipendono dalla presenza nell’uomo di un principio non materiale: l’anima, o res cogitans, nettamente distinta dalla materia, o res extensa.