Essere soddisfatti della propria prestazione indipendentemente dal risultato è tutt’altro che scontato in un’epoca in cui il numero di successi ottenuti viene considerato direttamente proporzionale al proprio valore.
Succede nell’ambito sportivo, dove si commette l’errore di pensare che sia la quantità di medaglie vinte a definire i propri meriti, ma anche in quello scolastico e universitario, in cui si tende erroneamente a considerare la persona solo sulla base di un voto, di un esame dato o di uno non ancora superato.
Fare meglio degli altri piuttosto che limitarsi a dare il proprio massimo. Questo è ormai l’obiettivo di molti, che tendono a vedere nel paragone con gli altri il principale strumento di misurazione del proprio valore, trasformando così la sana competizione, da sempre uno strumento utile per il proprio miglioramento personale, in un mezzo di “autodistruzione”.
Perché si cerca la competizione
In molti casi è proprio il peso delle aspettative a “schiacciare” l’individuo, succube di una pressione sociale che lo induce a non ritenersi soddisfatto fin quando non raggiunge l’obiettivo.
Eppure molte volte sarebbe opportuno, anche dopo una caduta, darsi una pacca sulla spalla e ritrovare la motivazione per ripartire. Ricominciare a correre, consapevoli che se la corsa porterà un miglioramento personale, non necessariamente tagliare il traguardo per primi sarà ciò che ci farà sentire realizzati.
La parola alla psicologa Valentina La Rosa
Ai microfoni di NewSicilia è intervenuta la dottoressa catanese Valentina La Rosa che, rispondendo ad alcune domande, ha fatto chiarezza sull’argomento.
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Da cosa può essere determinata la crescente tendenza a rincorrere il “successo a ogni costo”, mettendo da parte il piacere di partecipare o semplicemente la soddisfazione per aver fatto del proprio meglio?
“Viviamo in un’epoca in cui il successo viene spesso misurato attraverso il riconoscimento esterno: fama, status economico e approvazione sociale. L’ascesa dei social network ha amplificato questo fenomeno, trasformando il confronto con gli altri in una costante della nostra quotidianità.
Come sottolinea anche Selvaggia Lucarelli nel suo recente libro sul fenomeno Ferragnez, oggi siamo arrivati al punto in cui la nostra stessa persona sui social è diventata un prodotto. E quando questo ‘prodotto’ fallisce, ci sentiamo come se avessimo fallito personalmente. Basta un like in meno per scatenare una crisi di autostima e frustrazione, perché ormai la risposta virtuale è diventata la misura del nostro valore personale.
Questa pressione a ‘vincere a tutti i costi’ è diventata poi chiaramente visibile nelle Olimpiadi da poco concluse, attraverso le storie di atleti come Gianmarco Tamberi, che ha spinto il proprio corpo oltre i limiti, sottoponendosi ad allenamenti estenuanti e diete drastiche per conquistare la medaglia d’oro nel salto in alto, gareggiando persino in condizioni di salute precarie. Ma fino a che punto vale la pena sacrificare il proprio benessere fisico e mentale per raggiungere questi obiettivi? E poi c’è la storia del tennista italiano numero 1 al mondo, Jannik Sinner, che invece ha scelto di rinunciare alle Olimpiadi a causa di una tonsillite, per poi essere ferocemente criticato, sia sui social che dai media, per la sua decisione. Questi esempi mostrano chiaramente come la cultura della performance e del risultato abbia preso il sopravvento, sostituendo il valore intrinseco dell’impegno e della partecipazione, e aumentando così la pressione psicologica su ciascuno di noi“.
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Perché al giorno d’oggi l’obiettivo di molti è fare meglio dell’altro piuttosto che limitarsi a superare i propri limiti e fare meglio della volta precedente?
“Probabilmente, alcuni di noi ricordano ancora quei momenti in cui, da piccoli, dopo aver comunicato ai nostri genitori il voto preso a scuola, ci siamo sentiti fare la fatidica domanda: ‘E i tuoi compagni, quanto hanno preso?’. Magari, proprio in quel momento, abbiamo iniziato a pensare che il valore dei nostri risultati (e di noi stessi) dipendesse dal confronto con i risultati ottenuti dagli altri. Questo modo di pensare, orientato verso il confronto con gli altri piuttosto che con sé stessi, nasce spesso dalla pressione sociale e dalla competizione che ormai pervade tanti aspetti della nostra vita.
Viviamo infatti in una cultura che esalta la superiorità e il primato sugli altri, piuttosto che il miglioramento personale. Una cultura in cui raggiungere la perfezione e far parte dell’élite dei vincenti sono percepiti come segno del proprio valore personale.
Inoltre, le dinamiche economiche e lavorative di oggi ci spingono sempre di più a competere e a superare gli altri per ottenere opportunità, promozioni e riconoscimenti. In questo modo, ci troviamo immersi in un ambiente di competizione costante, dove sembra che l’unico modo per affermarsi sia confrontarsi e vincere sugli altri, piuttosto che crescere e migliorare per noi stessi”.
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Nel corso del tempo la pressione della società sembra essere sempre più intensa rispetto al passato. A cosa può essere dovuto?
“La crescente pressione sociale che dobbiamo affrontare quotidianamente è il risultato di vari cambiamenti nella nostra società. Prima di tutto, la globalizzazione e l’interconnessione digitale hanno moltiplicato il numero di persone con cui ci confrontiamo ogni giorno, aumentando così la competizione e la sensazione di dover costantemente dimostrare il nostro valore.
Inoltre, il ritmo frenetico della vita moderna, con la sua enfasi sull’efficienza, la produttività e la velocità, ha lasciato sempre meno spazio per la riflessione personale e per un approccio più equilibrato alla vita. E poi ci sono le aspettative sociali e culturali, che si sono intensificate a tal punto da farci credere che l’unica strada per il successo e la realizzazione personale sia quella di essere ‘il migliore‘. Questa mentalità orientata alla performance ci spinge a misurare il nostro valore solo in termini di risultati, lasciando poco spazio per l’autenticità e la crescita personale“.
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Quanto influisce la mentalità dell’ambiente in cui si vive, a livello sia familiare sia sociale?
“L’ambiente familiare e sociale ha un impatto decisivo nella formazione delle nostre aspettative personali e nella gestione della pressione a cui siamo sottoposti ogni giorno. Quando cresciamo in una famiglia che enfatizza il successo accademico o professionale a discapito del benessere personale, è facile sviluppare un forte senso di obbligo verso il raggiungimento di obiettivi esterni, spesso a scapito della nostra serenità. Allo stesso modo, se viviamo in una società che premia l’eccellenza e penalizza il fallimento, allora la paura del giudizio e dell’insuccesso può prendere il sopravvento.
Questa pressione può spingerci dunque verso una mentalità competitiva e un approccio perfezionista, che, a lungo andare, può risultare estremamente dannoso per il nostro benessere psicologico. Invece di sentirci liberi di esplorare, imparare e crescere, ci ritroviamo spesso intrappolati in un ciclo in cui l’unico obiettivo sembra essere quello di non deludere le aspettative degli altri, sacrificando così la nostra felicità e realizzazione personale“.
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Il peso delle aspettative è una realtà con cui molti studenti, atleti e molti altri giovani ogni giorno fanno i conti. Quali sono le conseguenze di questi “occhi giudicanti” che in più occasioni vengono puntati su di loro?
“Le aspettative e il giudizio degli altri possono avere un impatto enorme sul nostro benessere psicologico, soprattutto quando siamo più giovani. L’eccessiva pressione può portarci a sperimentare stress, ansia, depressione e una diminuzione dell’autostima. Quanti di noi, di fronte al giudizio degli altri, hanno sentito quella paura persistente di fallire, che sembra bloccare ogni passo in avanti?
Questa sensazione può paralizzare le nostre decisioni o farci evitare nuove sfide. Quando cerchiamo costantemente di conformarci alle aspettative degli altri, rischiamo di perdere di vista i nostri veri desideri e obiettivi personali. Questo può causare un senso di alienazione e ridurre la soddisfazione che proviamo nella vita. Inoltre, il continuo confronto con gli standard imposti dalla società può spingerci verso comportamenti disfunzionali, come il perfezionismo ossessivo o la ricerca incessante di approvazione. È fondamentale riconoscere questi schemi mentali disfunzionali e lavorare per modificarli e poter vivere una vita più autentica e soddisfacente“.
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Cosa consiglia a chi sente il peso del giudizio e delle aspettative altrui? Come si può ignorare la pressione proveniente dall’esterno? Esiste un modo per smettere di alimentare questa competizione “malata” e trasmettere i reali valori di una sana competizione?
“Se sentiamo il peso del giudizio degli altri, è fondamentale lavorare su una maggiore consapevolezza di noi stessi e sviluppare una nostra bussola interna. In questi casi, intraprendere un percorso psicologico di conoscenza e lavoro su se stessi può davvero fare la differenza, aiutandoci a esplorare i nostri valori e obiettivi autentici e a distinguerli dalle aspettative esterne. Inoltre, imparare a stabilire confini sani e a dire “no” quando necessario è un passo cruciale per proteggere il nostro benessere psicologico.
Per contrastare questa competizione malsana in cui ci troviamo spesso intrappolati, è essenziale promuovere e valorizzare il concetto di crescita personale. L’obiettivo non dovrebbe essere quello di superare gli altri, ma piuttosto di diventare la migliore versione di noi stessi. Educare noi stessi e i giovani alla resilienza, all’autocompassione e all’accettazione dei nostri limiti è una chiave importante per costruire una cultura della competizione più sana, in cui la collaborazione e il supporto reciproco sono al centro, piuttosto che la rivalità.
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Quanto è rischiosa la diffusione del messaggio trasmesso alle Olimpiadi in merito all’atleta Benedetta Pilato, criticata dall’intervistatrice per aver detto di essere felice pur non essendo arrivata sul podio?
“Il messaggio di un atleta che esprime soddisfazione e felicità anche senza aver vinto una medaglia è, in realtà, estremamente prezioso e significativo. Sfida la narrativa dominante secondo cui il nostro valore è direttamente proporzionale ai risultati ottenuti. Riconoscere e celebrare i nostri sforzi, indipendentemente dal risultato finale, promuove una mentalità di crescita e ci incoraggia ad adottare un approccio più equilibrato alla competizione. Questo è esattamente ciò che è accaduto a Benedetta Pilato alle Olimpiadi di Parigi 2024. Nonostante abbia mancato la medaglia di bronzo per un solo centesimo nei 100 metri rana, l’atleta italiana ha dichiarato di essere felice del suo quarto posto.
Questo tipo di atteggiamento ha sollevato reazioni contrastanti: mentre molti l’hanno sostenuta, altri hanno criticato la sua dichiarazione, chiedendosi come potesse essere soddisfatta senza una medaglia. Questo episodio ha messo in luce quanto sia radicata nella nostra cultura l’idea che solo la vittoria conti davvero. In una cultura che esalta la vittoria e il successo esterno, questo messaggio può sembrare paradossale e potrebbe essere scambiato per mancanza di ambizione. Tuttavia, è cruciale che comprendiamo che la vera realizzazione deriva dal dare il massimo e dall’essere in pace con il nostro percorso, piuttosto che dal raggiungimento di un risultato esterno. L’esperienza di Benedetta Pilato ci insegna che il valore di uno sforzo non si misura solo in termini di medaglie, ma anche nella capacità di raggiungere soddisfazione e crescita personale indipendentemente dall’esito finale“.