“Il canto di Mr. Dickens” di Samantha Silva

“Il canto di Mr. Dickens” di Samantha Silva

Un viaggio posposto di un secolo nella Londra di fine Ottocento accompagna il tributo allo scrittore alleato della mistificazione della realtà. Nella cornice del cielo plumbeo tipicamente inglese si è voluta narrare la vita privata di Charles Dickens con un ossequio di tutto rispetto durante la stesura del capolavoro, oggi patrimonio letterario nei cinque continenti.

Pubblicata a Londra nel 1843, “Canto di Natale” (titolo originale “A Christmas Carol“) è forse l’opera inglese che insieme alla pregevole produzione di William Shakespeare tiene alta la bandiera del Regno Unito.

Alla scrittrice e sceneggiatrice statunitense Samantha Silva si deve la confidenza della dimensione privata di Charles Dickens, raffinato uomo di lettere certamente, membro della società che non risparmia nessuno nell’esecuzione di un debito contratto. Questo è quel che succede lontano dal tavolo di scrittura di Charles Dickens, non ancora pregiato dell’opera che lo eternerà in ogni angolo del mondo, fino ad allora all’oscuro del personaggio Ebenezer Scrooge, il vecchio detrattore dell’ atmosfera natalizia.

L’ispirazione letteraria della Silva vola oltre i contenuti attigui alla realtà, perché il tappeto magico su cui viaggia vuole essere espressione fantastica dell’uomo e del personaggio dickensiano.

Manca solo un mese a Natale, lo scrittore è un uomo apparentemente felice, la moglie Catherine sta per dargli il sesto figlio. Il padre, il fratello e quasi tutti i componenti della sua numerosa famiglia contano sulla sua nota generosità tra le quattro mura domestiche, oltre che alle tante attività benefiche londinesi.

L’ultimo romanzo consegnato all’editore non ha avuto il successo sperato per cui, pressato dai debiti che lo tormentarono per tutta la sua vita, Charles Dickens deve far correre sul foglio poderosi fiumi di inchiostro come mai prima di allora. Povero senza preavviso, sempre più vicino al disastroso crollo non solo economico ma anche mentale, cioè “to the of the mental breakdown” con cui avverrà il declino della dignità personale.

Vigorose passeggiate notturne di una ventina di miglia erano il suo rimedio più fidato per la mente in subbuglio, perché restare a rigirarsi nel letto non serviva a niente; nel buio, l’irrequietezza vivida della città rispecchiava alla perfezione la sua. Fin dai primi giorni come scrittore, l’intera città si era dimostrata per lui non soltanto una fedele compagna, ma anche una panacea, di giorno e di notte, persino con il tempo più inclemente. Perché Londra perdonava sempre”.

Le pretese dei familiari ritardarono più volte l’urgenza letteraria riscontrata nella biografia di Dickens. Per lo scrittore dall’altisonante cognome arriva il tempo in cui sperimenta la mancanza di un’ispirazione utile alla creazione di un nuovo alfabeto in concerto.



L’idea di una fuga suggerisce la dissolvenza delle ombre accatastate sul foglio ormai bianco da troppo tempo. Qui la trama del profilo privato di Charles Dickens accoglie una tenue tonalità di giallo con l’avvento inatteso di Eleanor Lovejoy, una bellissima donna avvolta in una mantella viola che fino a quel momento non aveva mai incrociato il suo sguardo, eppure quei lineamenti sembravano riprodurre un’aura di mistero svelato a metà, ancor più se annunciati da una luce soffusa. Sua musa, suo ritrovato forziere di stima verso il proprio genio sospeso, Eleonor dispensa all’inchiostro linfa essenziale finalmente libera sul foglio avido del canto.

Dickens conosceva benissimo quel trucco, ma sorrise ugualmente, e non perché fosse eseguito con particolare maestria – anzi, vi aveva colto una certa goffaggine – ma per la verità di fondo di ogni spettacolo di magia, di ogni storia inventata, di ogni bugia: il nostro grande bisogno di credere“.

Ed ecco che l’anima dello scrittore ritorna in sé trafitta da nuovo fulgore. Il romanzo principe della letteratura mondiale segue una stella dallo stile simbiotico a un quarto Re Magio responsabile della coscienza morale.

Nasce così il celebre “Canto di Natale”, opera tradotta in tutte le lingue, venuto al mondo in una Londra ancora stupita dell’intraprendenza della regina Vittoria, la sovrana incoronata il 20 giugno del 1837 all’età di 18 anni.

Con la stessa vena immaginifica di un pittore, Charles Dickens ha dipanato le ombre del malessere cognitivo di una società dimenticata degli ultimi. Accorrono metafore poco velate per la diffusione di messaggi sul morbo della povertà, le vie traverse dell’amore, gli stati d’animo succubi dei pericolosi fantasmi del passato. Questi e tanti altri contenuti sono stati convocati in una cornice ingiallita insieme al vecchio Ebenezer Scrooge, il magistrale personaggio dickensiano avaro del suo stesso io.

Nessun elemento del suo reale valore intellettuale è stato manomesso dalla bolla immaginifica dentro cui è stato messo a punto il racconto. Nemmeno la convivenza con i fantasmi del passato è stata tenuta lontano dalla narrativa adottata con l’immensa responsabilità del suo peso letterario.

L’atmosfera suggestiva completa la scenografia dipinta a lettere della società londinese, non mancano i vetri appannati dietro ai quali si intravede il vestito della sparuta, felice, bellezza nata e cresciuta nel rassicurante tepore.

L’impronta di Dickens rimane comunque facilmente rintracciabile in ogni picco del grafico emozionale registrato nelle parole, una dopo l’altra, adottate da virgole compiacenti.

sara