“Ci sono mani che odorano di buono” di Sara Gambazza

“Ci sono mani che odorano di buono” di Sara Gambazza

C’è un quartiere della periferia di Parma che a tutte le ore del giorno assorbe il disagio esistenziale dei figli di una dea bendata sprovvista della sua virtù.

“È un formicaio il quartiere, fitto di case popolari, abitato da un campionario d’umanità che si somiglia per necessità e disperazione. Tutti uguali quelli del Cinghio, senza speranza, buoni a far niente, costretti a pensarsi con le convinzioni di chi nasce altrove, a vedersi con gli occhi di chi non sa cosa sia la miseria”.

Lo chiamano il quartiere del Cinghio, quasi a voler sottolineare l’aria feroce che lì si respira, le fauci di un animale mai esistito eppure sempre pronto ad addentare la carne debole di chi è stato dilaniato dalla vita. Al Cinghio i tagli sulla pelle convivono con le ferite dell’anima. Nessuna cicatrice, il tempo è stato maestro di acquiescenza ad ogni forma di povertà.

Ci sono mani che odorano di buono“, una ermetica seppur breve poesia si prende cura del titolo del romanzo di Sara Gambazza, edito da Longanesi. L’esordio nella narrativa non accade per caso. Dopo aver partecipato a diversi concorsi regionali, il salto di qualità si presenta al torneo letterario “Io Scrittore” che consente alla giovane scrittrice di ampliare il suo carnet di competenze culturali, tra le tante, un editor la propone a una casa editrice, ed ecco che si avvera il sogno.

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Il mese di gennaio si conferma complice delle basse temperature con tutto il catalogo delle intemperie ubbidienti alla stagione più severa di tutte. Da troppe ore, su una panchina del parco, siede una donna con una rete di anni impressa sul viso.

L’ala dell’angelo si manifesta nella mano di Marta, stanca di fissare impotente il profilo appannato di Bambina, detta Bina, la donna dalla carta d’identità ingiallita che sta aspettando il nipote invischiato nella nebbia da lui stesso prodotta.

La vecchia non si muoveva. Stava lì da almeno due ore: sbagliata l’età, sbagliata la borsetta in vista nel parco dove i ragazzini si baciano, gli spacciatori fanno affari e i disgraziati sfilano borse a mani meno grinzose di quelle.

Avvolta in un tappeto di pelle a righe per coprire le sue fragili ossa, come un foglio di un vecchio quaderno, Bina apre e chiude da protagonista le pagine della storia dettata da un sole a singhiozzo.

Restituito dalla nebbia clemente, Fabio, il nipote, fissa la panchina meno vuota delle sue tasche in debito con i pugni del quartiere malato. Prima di far pace col mondo non dovrà mancare all’ultimo appuntamento da ex corriere di droga per la banda del Cinghio, che da un debitore non ammette un giorno in più di ritardo. Fabio è un uomo in gabbia, tronfio come il passo del leone nella savana, febbricitante come un gattino abbandonato sotto una macchina una gelida notte d’inverno.

Nelle premure di Genny, un’ex prostituta dal buon cuore, Fabio troverà mani che odorano di buono, perché se l’alba ha sorpreso un vestito vagabondo, chi o cosa potrà negargli un tramonto insperato?

Per le braccia della stessa famiglia, la radice e il ramo, Bina e Fabio, il buon Dio ha esteso sulle loro povertà fisiche e non solo, mani che odorano di buono, le stesse che ancora una volta reggono l’uno la debolezza dell’altro. L’isola umana conosce la cura prima che sulla porta di casa compaia una mano tesa con una tazzina di caffè caldo. Quando la solitudine sconfina in un vecchio maglione usato come coperta dell’anima, le raffiche di vento ritrovano la bussola rotta durante una notte sposa della follia. Ignare l’una dell’altra nel quartiere simbolo dell’illegalità, Marta e Genny sono farmaco dei propri affanni sfidati a testa alta nell’inverno scritto con una lettera sbagliata.

Adesso che una nonna ascolta le confidenze di Marta e un amore pulito dorme nel letto di Genny, un primo accenno di luce entra dalle finestre oscurate dal Cinghio indegno.

Sebbene il palazzo brulicasse di gente, il mezzo giro del cucchiaino nella tazzina di caffè  rimaneva a tratti immobile, sprofondato nel liquido scuro e amaro che, anzichè allontanare il torpore, ne faceva incetta per il resto della giornata. È la vita di chi ne ha una sola, ma del disegno ne ha memoria solo qualche secondo prima della scadenza prevista. Le storie di periferia raccontano presenze conniventi con le tre emme: malattia, miseria, morte. Ciascuno a suo modo, i sopravvissuti di una guerra mai dichiarata sfuggono dalla deriva perché grati al bene provato mettendo a dormire la propria croce. Il non vissuto di Gianna, Ljuba, Maria, Benny, riempie le righe del buon destino assente, ma che nel “do ut des” viene esercitato con rispetto. L’ inverno degli ultimi dura molto più di una primavera “ad personam”.

sara