La vita di Sibilla Aleramo è la schiusa di un bruco ansioso di diventare farfalla. Scrittrice e poetessa, nasce ad Alessandria il 14 agosto 1876 in una casa dove l’armonia familiare è alterata dall’instabilità psichica della madre Ernesta, vittima della subdola malattia che la porterà al tentativo di suicidio e la definitiva chiusura in una casa di cura.
Per Rina Faccio, questo è il vero nome di Sibilla Aleramo, è l’inizio di una vita difficile, lavora come contabile nella fabbrica del padre, ambiente in cui la ragazza è oggetto di attenzioni morbose dagli uomini affamati di una gonna. La violenza fisica la segna definitivamente.
Piccola sposa non più pura, si risveglia moglie nauseata e madre affettuosa di un figlio, Walter, nato nel 1895.
Rina vive in un labirinto costruito apposta per lei, una donna dallo spirito guizzante rinchiusa e vigilata da un marito sadico e violento. Unico sollievo è la scrittura. Un così affollato cenacolo di pensieri non può restare muto per sempre, lava di vulcano urgente per mantenere l’equilibrio di quella rigogliosa natura umana, una prigione da cui evadere calcando la penna sul foglio, senza pudore, nessun timore.
La vita di sua madre si ripete, la giovane prigioniera tenta il suicidio, il marito esausto di tenersi accanto una mina pericolosa la costringe a partire per Roma rinunciando alla custodia del figlio. La sua è una vera e propria fuga di salvezza, una vittoria personale macchiata dal dover lasciare il suo unico figlio sotto il tetto di quel padre indegno.
La vocazione letteraria di Sibilla Aleramo intanto è in paziente attesa di manifestarsi al mondo. Nel 1899 dirige per un anno la rivista L’Italia femminile con lo pseudonimo di Favilla, la collaborazione viene però interrotta per accesi dissidi con l’editore. Nel 1902 incontra il poeta Giovanni Cena, direttore della rivista La Nuova Antologia, con cui ha una relazione che durerà sette anni. Sulle ceneri di Rina Faccio nasce Sibilla Aleramo, nome suggerito da Cena, tratto da un verso della poesia di Carducci “Piemonte”.
La seconda vita di Sibilla Aleramo è dedicata alla letteratura per l’affermazione dei diritti delle donne. Scrive articoli riguardanti la questione femminile, denuncia la prostituzione, organizza manifestazioni per il diritto di voto e coordina movimenti femministi.
Protagonista dei salotti letterari romani, intreccia relazioni passionali con numerosi poeti e scrittori. Tanti amori, nessun amore.
Un’immediata indagine psicologica induce a pensare che la leggerezza del suo comportamento era data dall’affetto perduto del padre e la disperazione segreta di aver perduto il figlio per sempre. Uomini, tanti uomini, giovani, molto giovani. Fragile anima dai sentimenti confusi, nel desiderio sconnesso nascondeva la privazione di una vita normale.
Nel 1906 pubblica il romanzo “Una donna”, il primo romanzo nella storia del femminismo italiano. È chiaramente un romanzo autobiografico, attraverso le tappe della sua vita Sibilla denuncia la condizione femminile di quegli anni. Il dolore impone di gridare all’amor proprio tutto il suo squarcio. Una donna, forse due, lei e la sua sfortunata madre segregata in un matrimonio senza amore, forse è questa la causa dell’aggravarsi della sua già instabile salute psichica.
Il romanzo illustra la donna nei primi anni del ‘900, proprietà del marito, un corpo da cui si chiede ma a cui non si dà. Un romanzo a due colori, un diario per illustrare l’infanzia di Sibilla come un acquerello di serenità, pennellate di gioia a tutte le ore del giorno, piccola complice del padre durante lunghe passeggiate animate da confidenze, poi l’adolescenza le sussurra il destino amaro perché costretta a sposare senza amore dopo aver subito violenza. La maturità le impone di gridare la sua sofferenza inesplosa nel tempo, è sempre più vicina la follia per aver risposto alla violenza con il silenzio. La remissività della madre le è stata maestra, la follia non si ripeterà.
Il cambiamento fu necessario. Vivere da sorgente prima di morire pozzanghera. C’era una dignità da far valere, diventò leader agguerrita di una lotta femminista per la sua e per le future generazioni di mogli, madri e donne, aiutandole a diventare donne indipendenti, nessun bavaglio, nessuna censura.
“Ed ero più che mai persuasa che spetta alla donna di rivendicare se stessa, ch’ella sola può rivelar l’essenza vera della propria psiche, composta, sì, d’amore e di maternità e di pietà, ma anche, anche di dignità umana”.
Il 3 agosto 1916 Sibilla Aleramo incontra Dino Campana, un giovane poeta oppresso da problemi psichici e destinato a finire i suoi giorni in manicomio. Le stranezze del poeta conosciuto come “el matt” (il matto del paese), sono note a tutti, così come è nota la possessività nei confronti della sua amante. Il loro è un rapporto tormentato, lei ha già avuto tante relazioni con i più famosi intellettuali del tempo, lui è divorato dalla gelosia resa ancor più esasperata dalla malattia mentale che lo accompagna da quando aveva 15 anni.
Insieme vivono un sentimento epistolare, le numerose lettere dei due amanti segnano l’inizio e la fine di una storia d’amore folle come le loro anime vittime di un destino gemello. Il poeta Dino Campana si inventava pellegrino alla ricerca di ciò che di più caro aveva al mondo, se stesso. La salute mentale minacciava di precipitare ad ogni incontro con la sua Sibilla, una donna ormai famosa, indipendente, libera, rivoluzionaria.
Ed era sesso, ed era violenza, l’odio furioso alternato all’idillio. Una comune follia.
Indispensabili l’uno all’altro, avvinti dal possesso e dalla poesia, una passione a quattro mani e due menti folgorate dal troppo sentire.
Quel calvario d’amore è scolpito per sempre nel carteggio “Un viaggio chiamato amore” – Lettere 1916-1918, la testimonianza di un amore tra due coscienze distanti dal moralismo imperante del tempo.
“Notte — Possa tu riposare, mentre io ardo così nel pensiero di te e non trovo più il sonno, e sono felice.
M’hai promesso di farti rivedere ancor più bello, mia bella belva bionda.
Come passerai questi giorni e queste notti? Mi senti nella mia sciarpa azzurra, speranza, grazia? Riposa, riposa.
Ci siamo meritati il miracolo. Lo vivremo tutto. E avrai tanta dolcezza anche dal dimenticarti in me, qualche momento, dall’avermi dinanzi come qualcosa a cui la tua dedizione sia sacra, fertile e sacra. Ho tanta fede, Dino. Mi sento ancora così forte, per questo scambio del nostro sangue”.
Dino Campana entrò in manicomio nel 1918, dove morirà nel 1932, non prima di aver chiesto il perdono alla sua amante: “Cara, se credi che abbia sofferto abbastanza, sono pronto a darti quello che mi resta della mia vita. Vieni a vedermi, ti prego tuo Dino“.
Lei non rispose.