Un fiore tra le rovine di una disperazione può profumare di domani? Se non ne sarà capace basterà affidarsi al vento che levigherà i petali con la brezza leggera di un tramonto commosso. La scrittura di Laura Imai Messina è stata metabolizzata attraverso lunghi corridoi mentali senza porte e senza finestre, ma soprattutto senza l’aria generosa rimasta dietro le barriere del poi.
L’11 marzo 2011 la città di Òtsuchi a nord-est del Giappone, nella Prefettura di Iwate, fu colpita da un violento tsunami scatenato da un terremoto del nono grado della scala Richter. Morirono 16 mila persone. La guerra della natura fu assai crudele con i soldati senza divisa mandati al fronte la mattina di un ultimo giorno.
Il disastro rubò vite umane e scappò via lasciando dietro di sé detriti di silenzio, un abisso di lutto. Fu ancora giorno, fu replica mansueta di un mostro dal nome ieri da addestrare con i ricordi aggrappati come granchi sugli scogli. Da domani si dovrà ricominciare a vivere, ognuno sarà sarto di se stesso. Ricucire gli strappi dell’anima è un tributo all’affetto travolto dall’ira della natura, si può e si dovrà fuggire dalle tenaglie del limbo sommerso.
Laura Imai Messina fotografa il terrore dopo il terrore. La vita che resta non è dissimile a quella mischiata al fango di un giorno di marzo,
è residuo di roccia sorpreso nella frana mentre tenta di scomparire nelle sabbie mobili del lutto. L’abbraccio di una forza fantasma raccoglie i frammenti del felice passato cristallizzandolo nella clessidra del tempo, scoppierà d’amore l’ampolla preziosa, la riconosceranno dal lento incedere di un innocuo minuto.
Tra le tante testimonianze raccolte il giorno dopo l’apocalisse, due storie sigillano il romanzo in una bolla di vetro dentro la quale fede e irraggiungibile chimera galleggiano insieme. La giovane Yui è una speaker radiofonica, trent’anni e un ingombro luttuoso avvinghiato ai suoi passi. Lo tsunami le ha portato via sua figlia e sua madre, tutta la sua famiglia adesso vive nel giardino dove i fiori non sanno appassire e la luna non obbedisce al suo turno.
Takeshi è un uomo nudo di una moglie rubata alla vita dalla malattia, padre di una figlia di quattro anni in ostaggio dell’immenso dolore che non sa più pronunciare. Muta. Non una sola naufraga isolata nel suo spicchio di mare, ma due anime. Il miracolo ascolta due suppliche, la preghiera è già manto di misericordia. Due paure restie ad abbandonare la pelle del lutto per dare voce ad un bizzarro cordone ombelicale che là fuori, da qualche parte, li sta aspettando.
Nel Nord del Giappone, ai piedi della Montagna della Balena, il guardiano Suzuki-san ha costruito una cabina telefonica in quello che diventerà il giardino di Bell Gardia Kujira – Yama, meta di pellegrini in fila per ascoltare la voce del vento. Il vecchio telefono non può connettersi a nessun suono vocale, non ha fili, non conosce la tecnologia nipponica di ultima generazione, è solo un filo diretto con l’energia del vento. La voce della natura si inchina all’alfabeto del cuore, niente di più nobile affidarsi all’eco della propria intimità emarginata da qualsiasi contatto esterno.
La magia di una corrispondenza con la voce addormentata nel paradiso dei giusti desta dal torpore chi cade nella disperazione.
“Quando la felicità diventa una cosa, qualunque altra cosa attenti alla sua sicurezza è il nemico. Fosse anche impalpabile come il vento, fosse anche della pioggia che cascava dall’alto. A costo della sua vita da niente, Yui non avrebbe mai lasciato accadesse del male a quella cosa e al luogo che ne consegnava la voce”.
È resurrezione profana forse, ma se l’ascolto promette un nuovo futuro perché tradire la mano tesa della compassione? Yui e Takeshi camminano insieme sopra i carboni ardenti di un lutto che ha trascinato l’anima in un coma irreversibile, sarà profezia di quale Dio non importa, la cabina telefonica recupererà la speranza dispersa l’11 marzo 2011.
Nessuno sentirà un solo squillo vibrare dalla cabina profetica, non ci sarà sordo a cui sarà impedito di sentire il calore sciogliere i nodi delle parole sospese quel maledetto giorno. “Yui comprese che l’infelicità aveva sopra le ditate della gioia. Che dentro di noi teniamo premute le impronte delle persone che ci hanno insegnato ad amare, a essere ugualmente felici e infelici. Quelle pochissime persone che ci spiegano come distinguere i sentimenti, e come individuare le zone ibride che ci fanno anche soffrire, ma che ci rendono diversi. Speciali e diversi“.
Da un apparecchio in disuso emerge il valore delle parole non dette, il vocabolario sottoposto a sentenza della bilancia gentile. La parola avvicina la natura indulgente e si tiene lontana dal rigore dei modi. Perdersi per poi ritrovarsi nei lunghi silenzi dentro una cabina-custodia di un abbraccio interrotto, costringerà il mare a perdere la scommessa di portare a termine il suo castello di rabbia. Sarà ancora amore santificato dalle ceneri sperdute nel perimetro dello tsunami a benedire “la vita oltre” di Yui e Takeshi, da radici sterili a querce frondose.
“Non avrebbe saputo concretamente come spiegarlo, ma c’era un minuscolo angolo buio sulla sua faccia, lo stesso che aveva Yui addosso, dove non lo sapeva. Era uno spazio in cui chi sopravviveva, rinunciava a ogni emozione, anche alla gioia, pur di non dover subire il dolore degli altri“.
Le disperazioni insieme sperimentano la grammatica elementare del cambiamento grazie alle intuizioni di due anime finalmente connesse. Perché improvvisare il volo se le ali ci sono sempre state? Magari in letargo, per consegnarsi poi all’idillio della nuova primavera.
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Dialoghi dai tratti oltremodo gentili permettono di individuare senza difficoltà la posizione della fiaba sul fondo della tragedia: il Paese del Sol Levante si presenta orgoglioso di sé in ogni passo delicato della scrittura. I personaggi sfilano in una gentile sequenza segnati dal lutto vissuto come foglio ingiallito di una poesia, non è difficile immaginare l’inchino con le mani giunte per annuncio di preghiera o di ringraziamento.
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