Un grido d’aiuto esploso dalle labbra nelle ore della notte di un anno bisestile. Sentimi scrive Tea Ranno, scrittrice siciliana che incanta l’orizzonte di un lettore innamorato della sua terra. Dopo lo Stretto lo sciame dei suoi romanzi vola su e giù per lo stivale, consapevole della sua capacità di attrarre discepoli per poi condurli alla casa del sole. C’è Sicilia in Amurusanza, in Terramarina, La sposa vermiglia, Viola Fòscari. I romanzi di Tea Ranno limano gli spigoli di un Mediterraneo in piena alta marea a causa dell’impronta incandescente.
Sentimi è il coro di donne alla ricerca di un ascolto, Sentimi è il cenacolo del dolore lasciato in eredità alla terra prima di partire per quel viaggio dove le scarpe sono inutili e il panorama cangiante. Di fuoco o di neve, l’itinerario è tracciato sulla pergamena vergata con il nostro nome. Con la complicità della notte una scrittrice ritrova la sua Sicilia inseguita da presenze trasparenti, fino a circondarla bloccandone il passo. Sono donne, lo sono state, sono anime dalle carni straziate dall’uomo per gelosia o per viltà, maschi succubi di ossessioni latenti sfociate nel delirio di un momento.
“Sentimi, tu che tieni la penna in mano e ragioni scrivendo sopra la vita e la morte.” Cento nomi, cento donne, storie di lenzuola tradite, di letti sfatti e rifatti, assassini della fede nuziale scaraventata tra i rovi di un giardino dannato. “Così leverai da qualcuna la macchia della calunnia, darai a qualcuna la pace della verità“.
L’eco infinito di Sentimi tuona nel silenzio di una notte appena nata, ma è già certezza che nessuna presenza conterà le ore vicine all’alba, troppo cara è l’intimità al riparo dalla luce pettegola. Il vizio del giorno ha la lingua loquace di menzogna, ma al primo spiffero della sera madre verità zittisce la calunnia.
Maria, Stella, Pietra, Candida, una lunga processione di madri e vergini consacrate a Dio, onore in dote a uomini malati di possesso, curati dal sangue della morte. Donne custodi di segreti sotto le gonne di pizzo o le tonache caste, tengono in ostaggio una notte per disfarsi dal peso della coscienza. Sentimi mano sul quaderno intinto di penna, spalanca le pagine alle storie raccontate da queste voci accorate, tu sola puoi misurare la lunghezza della lama conficcata nella carne, tu sola hai il privilegio di vedere la pena dell’ anima che il paese pettegolo a malapena intuisce. Le anime incedono rispettando il turno della confessione ad una scrittrice assunta per eternare il fiume di sangue sulla pelle innocente.
Cento donne obese di rabbia alleata al rancore spingono le corde vocali a vibrare oltre le loro possibilità, che siano pubbliche le tresche intrecciate nelle mani giunte o sotto i letti immacolati, gli scheletri al sicuro dietro il marmo non hanno mai saputo perché furono ossa anziché palpito di carne viva. E poi la morte, quasi mai vissuta al capezzale unto dall’olio benedetto, viatico per il nuovo cielo, no, l’ossessione banchetta nell’epilogo violento, atroce. L’uomo insano sotterra la verità a mani nude, le stesse mani che hanno ferito, ucciso, lui, rovo cresciuto tra l’erba maligna, ha rovesciato sangue sulla rugiada pronta per l’alba che non vedrà mai più.
Nella notte di nebbia e pioggia “la cuntatrice” scrive piegata sul foglio rivoli d’inchiostro giusto, pane di verità a chi un giorno leggerà il “cunto“. Sentimi è la preghiera d’aiuto di chi, in vita, rimase ad aspettare il miracolo nel tempo in cui Sentimi restò muto o schivato come una mosca, elemosina di pietà presa a schiaffi per aver preteso l’ascolto.
C’è il racconto struggente di Stella, monaca amante di don Terenzio, vecchio e grasso prete peccatore del paese, plagiato dall’ossessione di strappare il fiore più bello del chiostro. Trascinato dal profumo casto e puro entra nella cella di una vergine colpevole di una straripante bellezza. Sarà morte brutale per l’anima consacrata a Dio e per il figlio in grembo, prova palese della violenza.
E poi c’è la piccola Adele, partorita da Rosa e rossa di capelli, troppo rossa per essere figlia di Rosario, il padre che suo padre non è, tutta quella ruggine in testa identica a Tano, l’evidenza di un tradimento allestito per offrire chiacchiericcio succulento alla folla del paese. La lordura della colpa deve essere lavata col sangue innocente di Adele, un corpicino passato da mano in mano per proteggerlo dalla follia di Rosario, deciso a giustiziare quella chioma rossa che infanga la sua virilità rifiutata. Sudicio di disonore l’uomo passerà la vita a inseguire l’agnello protetto da mani di femmine, pronte a diventare artigli da avventare sulle carni della bestia a due zampe.
Un solo riscatto per cento violenze non basta, cento donne, cento madri uccise dalla metà del letto ingombrato da mani assassine. Cronaca ripetuta di un quotidiano domestico, ogni giorno più avvezzo alla firma di un rituale sanguinario in possesso della lama di un coltello. “Lo vedi, così è la vita: oggi ti toglie e domani ti dà, e, tra oggi e domani, trova il tempo di farti capire per quali strade devi passare per riscattarti ai tuoi occhi, non a quelli degli altri, chè gli altri, in fondo, che ne sanno di te, di quello che provi, di quello che senti, di quanto patisci? Con te ti devi rimettere in paro, con la coscienza tua che è più spietata di un lupo“.
Tea Ranno racconta la sua Sicilia con un talento sposato all’inchiostro profumato d’Amurusanza, come ogni innamorato loda la sua musa d’immensa bellezza, ma non trascura di approfondire i sospetti agli angoli delle strade omertose. Una vera “cuntatrice” non nasconde la crepa, la presenta da virtuosa stilista alle prese con una diversa cucitura per un vestito tagliato male. L’abito logorato sussurra Sentimi alla sarta operosa, ago e filo, carta e penna, la confezione in consegna meraviglia l’incredulo delle rifiniture preziose.
Le pagine di Tea Ranno raccolgono “cunti” di donne senza tacchi, eppure sono tutte altissime figure strappate alla terra l’attimo di uno strazio, gonne intrise di dignità e coraggio saranno per sempre l’àncora abbracciata al superstite scampato al veleno mortale. “Capii che nel cerchio c’eravamo io e loro, io viva e vive pure loro, in una maniera che non potevo comprendere fino in fondo, ma vive, ognuna per mezzo della parola che le rappresentava e le dava forma e pure sostanza“.