Nello sport, come notorio, esiste un problema razzismo. Di fatto, mentre le espressioni razziste sono sempre meno tollerate nella sfera pubblica (lavoro, scuola ecc.), lo sport resta uno degli ultimi bastioni in cui il razzismo può esprimersi liberamente e, troppo spesso, impunemente.
Ci si chiede il perché? Probabilmente, perché il mondo dello sport appare come una realtà parallela, neutra e ugualitaria con regole e leggi proprie. Così, un atleta che aggredisce verbalmente o fisicamente un avversario pensa di dover rispondere delle sue azioni soltanto alla propria federazione e non anche alla giustizia ordinaria. Tale lex sportiva, pertanto, si comporta da scudo omertoso, trascurando l’importanza di stigmatizzare questi gravi atteggiamenti.
Parlare di razzismo e antirazzismo in Italia è molto complicato.
Le problematiche maggiori sono 2: l’anacronistico modello italiano e l’immobilismo del movimento antirazzista rispetto agli episodi che ancora macchiano gli ambiti sportivi.
Lo sport non è un diritto previsto dalla costituzione, i padri costituenti non lo hanno inserito, perché nel periodo fascista veniva utilizzato come strumento di propaganda. Di contro però il massimo ente di promozione sportivo, il CONI, dal 1942 al 1999 ha lasciato nel suo statuto una parte in cui si parlava dello sport come pratica per favorire l’integrità morale e fisica della razza. Gaffe non da poco.
Il sistema sportivo, inutile negarlo, è fortemente discriminatorio. Negli ambienti decisionali del mondo sportivo c’è una fortissima visione nazionalista, nessuno è favorevole al cambio della legge sulla cittadinanza, ma alcuni sono favorevoli a uno ius soli sportivo.
Inoltre, il razzismo nel corso degli anni si è trasformato e le realtà antirazziste, soprattutto in ambito sportivo, non si sono evolute, non andando al passo con i cambiamenti. Nel mondo del calcio, ad esempio, sono molti gli addetti ai lavori che pensano non ci sia razzismo. Così come per i tifosi, anche quelli che si definiscono antirazzisti, i quali affermano di insultare i giocatori neri perché ricchi.
Anche la narrazione deve cambiare, non bisogna raccontare soltanto le nefandezze nello sport, ma è vantaggioso esaltare gli aspetti positivi e far passare il messaggio che lo sport è un mezzo utile per cambiare la società. In questo senso, lo sport diventa davvero integrazione se lo si lega al concetto di cittadinanza.
L’attività sportiva, infatti, dà e toglie cittadinanza: se ieri si rivendicava il diritto allo sport, oggi è quanto mai evidente l’affermare che lo sport è un diritto, che ogni qual volta viene negato rende la persona meno uguale rispetto agli altri, più svantaggiata, meno integrata.
Poter partecipare alle attività sportive è per molti ragazzi e giovani immigrati o di altre etnie il primo passo per sentirsi cittadini, prima e oltre del sentirsi italiani.
Ecco perché ogni volta che si vuol lanciare un messaggio di solidarietà all’opinione pubblica si usa lo sport ed i suoi campioni, e perché il pregiudizio, l’intolleranza ed il razzismo oggi si esprimono attraverso forme di aggressione e contestazione di sportivi ed eventi sportivi.
Cos’è lo IUS SOLI sportivo?
Dal 20 gennaio 2016 in Italia esiste una legge che permette ai minori stranieri di essere tesserati presso le federazioni sportive italiane. La legge riconosce il principio dello ius soli sportivo ed è rivolta a tutti i minori che risiedono regolarmente sul territorio “almeno dal compimento del decimo anno di età”: per loro è prevista l’iscrizione alle federazioni “con le stesse procedure previste per il tesseramento dei cittadini italiani”.
La legge permette ai minori stranieri di fare sport, ma non dà la possibilità di essere inseriti nelle selezioni nazionali, per le quali è necessario avere la cittadinanza. Alcune federazioni hanno iniziato ad applicare il principio ancor prima che diventasse legge per tutti: lo ha fatto la federazione dell’hockey su prato, quella di atletica leggera e quella pugilistica. Quest’ultima ha tra le sue atlete Sirine Chaarabi, la pugile diciottenne di origini tunisine che diede avvio ad una petizione e scrisse al presidente della Repubblica Sergio Mattarella perché le riconoscesse la cittadinanza per meriti sportivi, così da permetterle di partecipare come atleta italiana agli europei di Sofia e ai mondiali in India.
Secondo l’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione (ASGI) la legge è stato un primo passo da accogliere positivamente, sebbene sia carente sotto alcuni aspetti. Per esempio, lo ius soli sportivo può essere applicato solo ai minori che sono entrati in Italia prima di compiere 10 anni. La ragione di questa limitazione è legata in particolare alla pratica del traffico illecito di calciatori.
Essendo diventato legge, lo ius soli sportivo deve essere applicato da tutte le federazioni sportive italiane, cosa che in alcuni casi può causare alcuni problemi. La Federazione Italiana Giuoco Calcio (FIGC), per esempio, applica il regolamento della FIFA, che è la federazione internazionale: questa vieta sia il trasferimento dei minori stranieri già tesserati, sia il primo tesseramento in Italia dei minori stranieri, escludendo tre casi (quando il trasferimento dei genitori nel paese avviene per ragioni indipendenti dal calcio; nel caso il minore risieda entro 50 chilometri dal confine del paese in cui avviene il tesseramento e il club si trovi non oltre 50 chilometri dal confine; e per il ragazzo ultrasedicenne proveniente da uno dei paesi dell’Area economica europea). Anche in questi tre casi, il minore viene ammesso solo dopo aver ricevuto un parere positivo da una sottocommissione FIFA.
Avvocato Alessandro Numini