RAGUSA – Su delega della Direzione Distrettuale Antimafia di Catania, personale della Squadra
Mobile di Ragusa, con la collaborazione delle Squadre Mobili di Brescia e Monza, ha dato esecuzione ad ordinanza applicativa di misura cautelare, emessa il 2 febbraio scorso dal G.I.P. del Tribunale di Catania, nei confronti di quattro persone di cittadinanza nigeriana (D.O.M., D.E., B.F., O.L., in quanto gravemente indiziate, unitamente ad altri soggetti non identificati sedenti in Libia e Nigeria, di numerose ipotesi delittuose: dei delitti di tratta di esseri umani a fine di sfruttamento sessuale, delitti pluriaggravati dall’aver agito in danno di minori, dall’aver esposto le persone ad un grave pericolo per la vita e l’integrità fisica (precisamente facendo loro attraversare il continente di origine sotto il controllo di criminali che le sottoponevano a privazioni di ogni genere e a diverse forme di violenza, ed, infine, le facevano giungere in Italia via mare a bordo di imbarcazioni occupate da moltissimi migranti esponendole ad un altissimo rischio di naufragio), dall’aver contribuito alla commissione del reato in un gruppo criminale organizzato impegnato in attività criminali in più di uno stato; dei delitti di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, anch’essi pluriaggravati analogamente ai delitti di tratta di esseri umani; del delitto di associazione a delinquere finalizzata allo sfruttamento della prostituzione ed altre fattispecie delittuose.
Operazione “Family Business”
La presente indagine, coordinata dalla Direzione Distrettuale Antimafia di Catania e condotta dagli investigatori della Squadra Mobile di Ragusa, traeva origine dalle dichiarazioni rese da una minore straniera non accompagnata di cittadinanza nigeriana giunta presso il Porto di Pozzallo il 15 aprile 2017 unitamente a numerosi migranti di varie nazionalità. La giovane, immediatamente collocata in una struttura per minori, dopo aver acquisito fiducia negli operatori, raccontava loro il percorso di trafficking che l’aveva portata in Italia, percorso svoltosi secondo un iter tristemente già noto: profittando della estrema povertà del nucleo familiare della ragazza, una conoscente le aveva proposto di raggiungere la propria figlia in Italia per lavorare e aiutare la famiglia, allettante proposta che veniva ovviamente subito accettata; di poi era stata sottoposta a rito Ju-Ju, così impegnandosi a pagare un debito di 30.000 euro alla donna che l’aspettava in Italia e, accompagnata dai due fratelli di detta donna, unitamente ad altre tre ragazze, aveva iniziato il viaggio verso l’Italia, viaggio durante il quale due delle tre ragazze avevano perso la vita; giunta in Italia era stata ripetutamente contattata perché lasciasse la struttura e potesse finalmente adempiere il debito assunto e, tuttavia, compreso ciò che la aspettava, si era rifiutata.
L’avvio di una complessa attività tecnica permetteva di comprendere che la minore rappresentava solo uno dei numerosi investimenti effettuati nel settore della tratta di esseri umani da un gruppo di cittadini nigeriani, tutti legati da vincoli di parentela ed operanti in territorio di Brescia ma con una indispensabile cellula operante in Nigeria (correi che si occupavano del reclutamento e della celebrazione dei riti): emergevano, difatti, diverse vicende di giovanissime ragazze nigeriane che i predetti trafficanti avevano trasferito dalla Nigeria all’Italia ed immesso nel circuito della prostituzione su strada, dopo averle soggiogate con il rito Ju-Ju obbligandole all’osservanza del giuramento assunto e al pagamento del debito contratto.
Ma il “family business” non si limitava solo alla tratta di esseri umani, il gruppo si occupava difatti stabilmente della organizzazione, del controllo, della redditività del meretricio di un nutrito numero di cittadine nigeriane (circa dieci, alcune delle quali identificate): i sodali, sotto la direzione di D.O.M. provvedevano a trovare una sistemazione alloggiativa alle prostitute (prevalentemente abitazioni all’interno delle quali era presente almeno uno dei sodali in modo da esercitare un controllo più penetrante e sottrarre subito i guadagni alle ragazze non appena le stesse facevano rientro a casa), provvedevano ad assegnare loro una specifica postazione lavorativa su strada (cosiddetta joint).
Grazie anche agli ottimi rapporti con altri operatori del settore (D.O.M. era in costante contatto con altre connazionali aventi il controllo di prostitute o proprietarie delle postazioni su strada), provvedevano a risolvere eventuali problematiche insorte sul luogo di lavoro connesse all’espletamento del meretricio (dando disposizioni su eventuali spostamenti da compiere, intervenendo in caso di litigi tra le ragazze, autorizzando o meno determinate prestazioni e stabilendone il prezzo, concedendo “congedi” occasionali). Disponevano del corpo delle ragazze e si appropriavano costantemente dei guadagni delle connazionali.
L’importanza del corpo del donne – Il rito del ciclo
Il corpo delle donne risultava centrale in tutte le dinamiche criminali gestite dal gruppo, reificato e ridotto a merce, altresì risultava cruciale nella scelta dei riti da celebrare ai danni delle connazionali: per le giovani che non prestavano ossequio a quanto loro richiesto veniva commissionata in Nigeria ad un voodoolista la celebrazione del “rito del ciclo” ovvero un rito che avrebbe comportato per la vittima un ciclo mestruale perenne, senza fine e quindi tale da renderla inavvicinabile e indurne la morte. Il sodalizio risultava diretto da una donna nigeriana, D.O.M, perfettamente integrata in Italia e coniugata con un cittadino italiano, che si avvaleva della stabile collaborazione della sorella e dei fratelli dimoranti in Italia nonché di altri prossimi congiunti operanti in Nigeria: accanto al gruppo si evidenziava anche la figura di una donna nigeriana B.F. la quale, giunta in Italia come vittima di tratta, non appena ultimato il pagamento del debito di ingaggio, si era trasformata a sua volta in madame ed aveva reclutato e fatto giungere in Italia una “propria” vittima, chiedendo aiuto e consiglio a D.O.M. atteso che questa ultima aveva ormai acquisito una grande expertise nel settore della tratta di esseri umani.
Anche nella presente indagine venivano registrati numerosi commenti svolti dai trafficanti in relazione alle conseguenze dell’editto dell’Oba di Edo State King Ewuare II, editto che, come è noto, aveva comportato la revoca di tutti i riti Ju-Ju celebrati per vincolare le vittime di tratta al pagamento del debito verso il trafficante, con divieto di celebrarne altri per il futuro: la revoca dei Ju-Ju innescava ovviamente il rischio della perdita di efficacia intimidatoria del rito stesso, determinando la possibilità che le vittime si sarebbero sentite incoraggiate a non pagare più e a non esser più ossequiose ai dettami dei loro trafficanti. Tuttavia erano varie le interpretazioni date all’editto al fine di preservare l’efficacia dei riti già celebrati: la madre di D.O.M., dimorante in Nigeria e importante motore delle dinamiche di trafficking gestite dai figli in Italia, in una conversazione spiegava alla figlia che l’editto avrebbe comportato l’annullamento del Ju-Ju solo nel caso in cui con il rito fosse stata prevista la morte per l’inadempimento del debito e, tuttavia, allorché le veniva precisato che l’Oba in realtà non aveva fatto alcuna distinzione, si domandava preoccupata come sarebbe stato possibile a quel punto far pagare il debito a tutte le ragazze che erano state portate in Italia. D.O.M., dal canto suo, accoglieva una ulteriore interpretazione ovverosia che l’Editto non avesse efficacia retroattiva ed avrebbe potuto valere solo per il futuro, con la conseguenza che tutte le vittime che erano già state sottoposte al rito prima dell’editto e che si trovavano in Italia, non sarebbero state toccate dal raggio di azione dell’Oba e avrebbero dovuto continuare a pagare.