CATANIA – Dicono che i soldi non facciano la felicità, ma intanto sono fonte essenziale del nostro vivere. Senza di essi non potremmo neanche soddisfare i bisogni di prima necessità. Dunque, lavorare risulta fondamentale sia per la sopravvivenza, ma talvolta anche per la realizzazione personale.
Trovare un’occupazione che rispecchi al massimo le nostre esigenze non è semplice, soprattutto in un periodo come questo che vede numerosi giovani disoccupati. Quindi adeguarsi a svolgere mansioni lontani dalle nostre attitudini è spesso la soluzione che siamo obbligati a prendere per poter portare a casa quattro spicci.
Questo, però, a volte può essere causa di malessere e stress, che in questo caso non sarebbe altro che stress lavoro correlato, in quanto a causarlo è il protrarsi di fattori propri del contesto lavorativo. Può essere definito come uno squilibrio percepito dal soggetto tra le richieste del mondo lavorativo e le sue capacità nel fronteggiarle, con conseguenze di natura psicofisica e sociale. L’individuo, quindi, non si sente in grado di soddisfare le aspettative che vengono riposte in lui.
Come sostiene il dottor Davide Ferlito, psicologo catanese, non si tratta di una condizione che va presa sottogamba perché le conseguenze possono essere consistenti. “Esso, infatti, può determinare problematiche di natura psicologica, come stati depressivi e attacchi di panico; psicosomatica, come problemi gastroenterici e cardiocircolatori; comportamentale, come l’aumento dell’uso di alcool e sigarette; e connesse al contesto lavorativo, come l’aumento dell’assenteismo e la riduzione della qualità prestazionale. Per tale motivo, per quanto sia necessario lavorare, è indispensabile che il contesto in cui vengono prestate le attività sia adeguato al benessere del lavoratore, che deve, altresì, essere sostenuto nel momento in cui si dovessero presentare condizioni potenzialmente stressogene”.
Alzarsi la mattina con il pensiero che ogni giorno è praticamente una sfida non è facile e vivere in una condizione di stress costante non è semplice da gestire. “Le energie sono al minimo sindacale e lo stato d’animo sottoterra – afferma lo psicologo -. Il soggetto parte già sfiancato da quanto vissuto e sulla base di questo struttura una prospettiva improntata al negativo che, inevitabilmente, lo porterà a concentrarsi su tutti quegli elementi che risultano coerenti con quest’ultima, rinforzandoli e ponendo le basi per una condizione di malessere che si estenderà anche a contesti lontani da quello professionale”.
In alcuni casi è talmente forte il malessere che si è costretti a chiedere il trasferimento o addirittura ad abbandonare il lavoro. “Un intervento efficace richiederebbe il coinvolgimento di tutte le parti in causa, anche in un’ottica preventiva – continua il dottor Ferlito -. Da un lato, infatti, il lavoratore va sostenuto, anche attraverso un processo di potenziamento delle risorse individuali e delle strategie di coping (fronteggiamento delle problematiche), dall’altro andrebbe coinvolta l’intera organizzazione che deve monitore tutte quelle condizioni che possono essere fonte di malessere psicofisico, intervenendo su ognuna di esse. Ad esempio, potrebbe essere funzionale ridurre il carico e i ritmi di lavoro, favorire un clima collaborativo tra i propri dipendenti e strutturare un ambiente lavorativo a misura d’uomo”.
Alcune categorie professionali sono più soggette ad altre a questo fenomeno, come medici, infermieri, poliziotti, assistenti sociali, insegnanti e autotrasportatori. Ma in linea generale, si tratta di una condizione che può colpire, potenzialmente, ogni singolo lavoratore. “Va sottolineato come vi possano essere circostanze specifiche in grado di produrre un aumento consistente di stress – conclude l’esperto -. Un esempio è dato dal lavorare in un ambiente poco confortevole e/o svolgendo delle attività monotone e ripetitive. A questo possiamo aggiungere una formazione inadeguata, l’eccessivo carico di lavoro, un clima scarsamente collaborativo e fortemente competitivo (es. mobbing) che porta, inevitabilmente, a un sovrainvestimento emotivo nel proprio lavoro. Vanno, infine, citate la mancanza di crescita professionale, la precarietà del lavoro, la presenza di ambiguità e conflitti di ruolo, nonché di grandi responsabilità verso altre persone come nel caso del burnout, forma di stress che colpisce le cosiddette professioni di aiuto (es. medici, psicologi, infermieri, ecc)”.
Da gennaio 2011 è diventato obbligatorio per le aziende italiane effettuare la valutazione dello stress lavoro correlato. Il quadro normativo di tutela della salute e sicurezza sul lavoro è rappresentato dal D.Lgs. 81/2008, che lo classifica come uno dei rischi che deve essere valutato, nel rispetto dei contenuti esplicitati nell’accordo europeo 8 ottobre 2004.
Attraverso la circolare del 18 novembre 2010, la Commissione Consultiva Permanente ha espresso le tempistiche da rispettare, imponendo l’obbligo per i datori di lavoro di ripetere la valutazione con una frequenza non inferiore ai tre anni.
Immagine di repertorio