PALERMO – Il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, ha firmato alle 10,35 di stamani le lettere di dimissioni e, alla soglia dei 90 anni, lascia la residenza istituzionale.
Si chiude, così, la presidenza più lunga della Repubblica.
“Il Paese resti unito e sereno”, ha detto agli italiani. Quella serenità che, forse, gli è mancata quando i riflettori erano puntati su di lui per la presunta trattativa Stato-Mafia.
La vicenda è culminata nell’udienza dello scorso 28 ottobre nella Corte d’Assise di Palermo, in trasferta al Colle, per sentire la deposizione di Napolitano.
Sala Bronzino blindata per circa 3 ore di colloquio nelle quali il capo dello Stato ha dichiarato di non sapere nulla e, di conseguenza, di non essere stato in grado di evitare le stragi del 1992-93.
Ma occorre fare un passo indietro.
A precedere l’udienza del 28 ottobre, infatti, non si possono non ricordare gli intricati eventi di qualche tempo prima: lo scontro con la procura di Palermo sulle intercettazioni registrate con l’ex ministro Nicola Mancino, poi distrutte, la questione sollevata innanzi alla corte costituzionale, la tragica scomparsa del consigliere giuridico Loris D’Ambrosio, stroncato da un infarto, e, infine, la decisione della Consulta di ”distruggere” le telefonate del presidente.
Prima di morire, D’Ambrosio, esprime il suo timore di ”essere stato allora considerato solo un ingenuo e utile scriba di cose utili a fungere da scudo per indicibili accordi”, parole che la procura di Palermo ha ritenuto di voler approfondire e alle quali Napolitano risponde definendole ”ipotesi prive di sostegno oggettivo perché altrimenti il magistrato eccellente Loris D’Ambrosio avrebbe saputo benissimo qual’era il suo dovere”.