Il pessimismo di Pansa e l’angosciante prospettiva di futuro della Sicilia

Il pessimismo di Pansa e l’angosciante prospettiva di futuro della Sicilia

CATANIA – L’ultima fatica di Giampaolo Pansa “L’Italia non c’è più” ci deve far riflettere parecchio; lo scrittore racconta in questo libro come eravamo e come siamo. Nella sua presentazione dice cose importantissime come: “Un racconto dell’Italia com’era qualche decennio fa e una previsione dell’Italia che sta cambiando sotto i nostri occhi. Cambia in meglio? Per niente. Siamo un paese che ha perduto se stesso. Tanto da rendere inevitabile il titolo di questo libro: L’Italia non c’è più. Come eravamo, come siamo. Anzi, come saremo. Sull’Italia del passato non ho dubbi. Ci ho vissuto da bambino, quindi da studente e infine da cronista. La mia opinione è che un tempo l’Italia fosse migliore di questa del 2017. Oggi siamo un paese allo sbando, schiavo di troppe vanità inutili, a cominciare dal sesso esibito. Dove il bullismo è diventato lo sport nazionale, tanto da contagiare leader di prima fila. Il lavoro manca soprattutto ai giovani. E la lingua italiana sta sparendo, sconfitta dal gergo impoverito dei social network…. Come finiremo? Temo di saperlo. I partiti politici spariranno. Si imporrà un governo di gelidi super tecnici o di militari, un affare per carabinieri e guardie di finanza. Sono pessimista? Giudicherete voi!”.

Non è una visione pessimista, ma reale. E a noi siciliani, il cui quadro appare ancora più drammatico, specie per tutto quello che sta succedendo, cosa ci potrà riservare il futuro prossimo e non lontano? Non di certo un governo regionale di tecnocrati o militarizzato e nemmeno affidato a carabinieri o guardia di Finanza (magari!) , ma? … lo diremo dopo! Prima facciamo una semplice e veritiera analisi: stiamo assistendo all’arrivo di tremila emigranti al giorno che sbarcano nei nostri porti, come se niente fosse; mediamente ad ogni incrocio nelle nostre città ci stavano 4 o 5 extracomunitari lavavetri, un paio a chiedere l’elemosina, altri a vendere fazzolettini di carta e accendini; oggi risultano quintuplicati, come le presenze di giovani donne africane sparse lungo le strade comunali provinciali e statali a prostituirsi.

Prima, ancora in Sicilia esistevano le piccole e medie imprese presenti con i loro stabilimenti nelle ex Asi, le aree di sviluppo industriale, e nei Centri artigianali; oggi sono rimasti, in detti luoghi, i resti, di archeologia industriale e artigianale. Prima la Sicilia risultava la prima regione d’Europa ad esportare produzioni agricole, agrumicole e primizie serricole, con un fiorente indotto che si occupava dei trasporti e della produzione di cassette ed imballaggi. Oggi basta andare a Lentini, a Noto, a Vittoria, a Pachino, ad Acireale, a Riposto, a Licata, a Marsala, a Partanna, a Milazzo e tanti altri centri agricoli per verificare la devastazione fiorente.



Una volta Caltanissetta, Enna, i paesini dei Nebrodi e Ragusa, rappresentavano la produzione lattiero casearia d’eccellenza per la presenza di grandi allevamenti di bovini e ovini, oggi sono costretti persino ad importare latte e caglio dalla Romania, dall’Ucraina e dalla Germania, per poter competere con altre realtà produttive del settore fuori regione. Cosa rimane ai siciliani? “Cu ’stu lustru ’i luna ca c’è oggi?” : con i politici di oggi che hanno reso la Sicilia una pattumiera, la terra della disoccupazione, la terra della emigrazione siciliana coatta, della desertificazione di borghi e comuni, di una mastodontica carenza di strutture viarie e infrastrutture in generale, dalla morte di un settore industriale.

Una speranza c’è e sarebbe quella che l’Isola venisse assegnata, quale colonia alla Germania ed avere come governatore un grande siciliano come Ignazio Perlongo, nominato vicerè di Sicilia nel 1713, dall’ Imperatore Austro Ungarico del tempo, e che fu fautore di un grande sviluppo socio economico dell’Isola e che il suo trattato “Sul commercio in Sicilia”, ebbe grande successo. E per dirla come conforto: Ignazio Perlongo fu il primo amministratore siciliano a realizzare il porto franco a Messina.

Giuseppe Firrincieli