E alla fine è toccato anche a noi. Un contributo di sangue siciliano alla violenza, all’odio, alla ormai conclamata e assoluta mancanza di valori che ha trasformato il nostro bel mondo in una giungla selvaggia, assetata di vendetta e di morte.
Adele Puglisi diventa dunque simbolo della Sicilia ferita a morte, prima vittima siciliana dell’Isis. Anche se viveva poco nella sua Sicilia, nella sua casa al Fortino, amava Catania e tutte le volte che poteva, che il lavoro glielo consentiva, tornava. Doveva tornare anche oggi per trascorrere un pezzo di questo inizio d’estate con il fratello, al quale era molto legata. Ma non ha fatto in tempo. Non le è stato permesso da quel folle gruppo di aguzzini che prima di sgozzarla, aveva imposto a lei, come agli altri ostaggi, di recitare dei versi del Corano.
Qualcuno oggi, accecato dal dolore e dal senso di impotenza, urla BASTA. Ma sono urla gettate al vento perchè non esiste una sola vera possibilità che questa catena di odio, culturale, razziale, religioso, possa finalmente interrompersi.
Siamo realisti, da due anni non facciamo che tenere il conto di attentati e di morti in un crescendo pauroso. Da Parigi a Bruxelles, da Bruxelles a Istanbul, da Istanbul a Dacca.
La lotta è impari, si fronteggiano terroristi che non esitano a farsi saltare in aria e che dimostrano mese dopo mese, giorno dopo giorno, di essere in grado di colpire ovunque, nelle stazioni ferroviarie, negli aeroporti, nelle discoteche, nei ristoranti. Come si fa a riconoscerli? Come avrebbe potuto Adele riconoscere i suoi carnefici e dunque a fuggire, a evitare la terribile fine che invece purtroppo ha fatto?
Queste poche righe vogliono testimoniare il disagio che anche noi giornalisti ormai avvertiamo come un peso insopportabile di fronte a questi avvenimenti. Raccontare di morte, raccontare di odio, intervistare i feriti, ascoltare i politici. L’opinione pubblica chiede e noi l’accontentiamo. Ma tutto ciò non ci restituirà la gioia di vivere, il sorriso di Adele Puglisi.