Il ventunesimo secolo si apre sotto il segno della globalizzazione, delle grandi promesse di progresso; un filo rosso di chi crede nella fiamma viva del futuro. Un volto ambiguo, però, si cela dietro questa facciata: quella delle contraddizioni, della mercificazione del tempo libero, della tecnologia che avanza impervia; un leone che fiero si erge nella savana del cosiddetto progresso, che esclude chi non riesce a tenere il passo.
Ed è qui che la natura diventa rifugio, antidoto, utopia, c’è chi ne ha fatto una via di fuga. È il caso della ormai nota famiglia del bosco. Immaginate di recidere ogni legame con scuola, società, istituzioni: il tutto in nome di un’educazione alternativa che possa radere al suolo la schiavitù alla quale si sta per firmare un contratto di condanna a vita.
Il kindergarten di Froebel: la natura come “maestra privilegiata”
Due secoli fa il pedagogista e filosofo Friedrich Froebel inventava il kindergarten, il giardino d’infanzia: un’idea rivoluzionaria per l’epoca, che immaginava bambini liberi di imparare a contatto con gli alberi, con la natura e con il gioco spontaneo.
Nel 1837 Frobel apri in Turingia la prima istituzione destinata ai bambini piccoli che incorporava in modo sistematico le sue idee. Dall’apprendimento tramite il gioco ad attività concrete con i cosiddetti “doni“, fino al cuore del suo pensiero: la centralità della natura.
Una natura vista come maestra privilegiata, che insegna ai più piccini a sviluppare percezione, conoscenza e sensibilità estetica osservando piante, alberi, stagioni, suoni naturali.
Fondamentale in questo senso è il ruolo dell’adulto, della maestra giardiniera, che anticipa per grandi linee l’approccio montessoriano dell’osservazione più che dell’azione diretta. Quello che stava per essere un esperimento educativo fuori dal tempo oggi è diventato a tutti gli effetti un caso giudiziario che scuote l’opinione pubblica.
Unschooling e “off-grid”: perché è diverso dal modello di Froebel
Secondo il metodo adottato, ovvero l’unschooling, il bambino deve avere la libertà di imparare in modo spontaneo attraverso la curiosità, l’esperienza, la sperimentazione. In combinazione con una vita “off-grid”, immersa nella natura, l’unschooling assume la forma di una vera e propria rinuncia alla struttura urbana: niente elettricità, niente acqua corrente, niente scuola convenzionale, un ritorno a un’esistenza “essenziale”, a stretto contatto con la terra e gli elementi.
Ed è questa totale libertà – che sfiora il rischio – che lo differenzia dal modello di Froebel. Manca un progetto educativo strutturato, una figura che accompagni “per mano” il bambino nel suo percorso di scoperta.
Le due famiglie del bosco: da Palmoli al “tuffo” tra le montagne toscane
A Palmoli, un piccolo borgo d’Abruzzo, una coppia anglo-australiana con tre figli viveva da tempo in un casolare immerso nel bosco, senza allacciamenti elettrici né acqua corrente, che incarna lo stile di vita “off-grid + unschooling”.
Il loro progetto di vita ha attirato l’attenzione delle autorità dopo un episodio grave: i bambini, dopo aver raccolto funghi nel bosco, furono ricoverati per sospetta intossicazione. Quell’episodio attivò verifiche: condizioni abitative precarie, nessun impianto di base, assenza di garanzie igienico-sanitarie, dubbi su salute, scuola e socialità.
Lo scorso 20 novembre il Tribunale per i Minorenni dell’Aquila ha disposto la sospensione della potestà genitoriale e l’allontanamento dei tre bambini, trasferiti in comunità protetta insieme alla madre. I giudici hanno motivato l’ordinanza con il “rischio per la salute fisica e per lo sviluppo psicologico e sociale” dei minori. Dall’udienza di ieri è emerso che il Tribunale per i Minorenni si è riservato sul caso: entro il prossimo 16 dicembre si saprà se i bambini torneranno a casa.
Nel frattempo, non lontano ma in un contesto completamente diverso, un’altra famiglia – residente a Caprese Michelangelo, in provincia di Arezzo – è finito nel mirino dei magistrati. Padre e madre avevano scelto di vivere in zona boschiva, optando per la scuola parentale per i loro due figli, di 4 e 8 anni. Secondo quanto ricostruito, i genitori non avrebbero rispettato la normativa prevista per l’istruzione domiciliare, né per quanto riguarda le procedure né per quanto riguarda i controlli sanitari: in particolare, risulta che non siano stati completati gli obblighi vaccinali. Motivo per cui Il Tribunale per i minorenni di Firenze ha disposto, con provvedimento eseguito lo scorso 16 ottobre 2025, l’allontanamento dei due bambini, collocati in comunità protetta.
È importante a questo punto comprendere il concreto impatto che questo stile di vita controcorrente può avere nell’educazione dei piccoli: lo ha spiegato ai microfoni di NewSicilia la dottoressa Valentina Gentile, psicologa e psicoterapeuta, aiutandoci a guardare questi casi con uno sguardo meno giudicante e più consapevole.
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In bambini cresciuti senza scuola e senza contatti regolari con coetanei, quali segnali bisogna osservare per capire se stanno sviluppando bene le loro capacità emotive, sociali e cognitive?
La dottoressa ha spiegato che, quando un bambino cresce fuori dai circuiti tradizionali (cioè senza scuola, senza routine condivise, con pochi pari) “lo sguardo dell’adulto diventa il suo orizzonte principale. Non è l’assenza della scuola in sé a rappresentare un rischio: la ricerca sull’apprendimento libero sottolinea come ciò che davvero sostiene lo sviluppo sia la qualità delle esperienze, la presenza affettiva e la possibilità di esplorare in modo vivo e significativo. Nei più piccoli, il primo segnale da osservare riguarda la regolazione emotiva: il bambino riesce a calmarsi appoggiandosi all’adulto? Ritrova un equilibrio dopo un piccolo conflitto o dopo un’imprevista frustrazione? Queste micro-transizioni sono la traccia di un mondo interno che si organizza”.
“Tra i quattro e i sei anni, la capacità di giocare ‘come se‘, cioè di creare storie, di alternare ruoli, di trasformare l’esperienza in rappresentazioni, diventa un indicatore cruciale: è attraverso il gioco simbolico che il bambino costruisce ponti tra ciò che vive e ciò che comprende”.
“Dai sei anni in su, lo sguardo si sposta sulla continuità: il bambino riesce a mantenere l’attenzione? A raccontare ciò che pensa? A tollerare tempi più lunghi e richieste minime? Quando queste competenze si irrigidiscono o faticano a decollare, vale la pena approfondire”.
Sul versante sociale, “anche in assenza di coetanei, possiamo cogliere elementi importanti: reciprocità nello scambio, capacità di attendere, piccoli gesti empatici, curiosità verso l’altro. Al contrario, un ritiro marcato, scarsa iniziativa o relazioni molto rigide possono segnalare una fragilità emergente“.
“Il piano cognitivo – prosegue la psicologa – rimanda soprattutto alla curiosità: domande, esplorazioni, narrazioni che si allungano, piacere di costruire e smontare. Un linguaggio povero, un gioco ripetitivo, una bassa iniziativa esplorativa sono segnali che meritano attenzione. Lo sviluppo non dipende dalla quantità dei contatti, ma dalla qualità dell’esperienza interna ed esterna. Laddove più aree mostrano difficoltà simultanee, è utile un confronto con professionisti qualificati”.
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L’apprendimento libero, senza regole scolastiche, può creare delle lacune nello sviluppo? Se sì, quali le prime aree in cui potremmo vederlo nei bambini di questa età?
“L’apprendimento libero non è, di per sé, un territorio pericoloso. Numerosi studi mostrano che il gioco spontaneo e l’apprendimento esperienziale stimolano creatività, autonomia e flessibilità mentale. Il punto critico non è l’assenza di scuola, ma l’assenza di esperienze sufficientemente varie e relazionalmente nutrienti“.
Secondo la dottoressa gentile, sono tre le aree più sensibili alla mancanza di contesti strutturati tra i sei e gli otto anni.
- regolazione emotiva: “la scuola offre una serie di micro-situazioni quotidiane – attese, piccoli fallimenti, contrasti tra pari – che allenano il bambino alla modulazione emotiva. Senza questi attraversamenti, possono comparire impulsività, bassa tolleranza alla frustrazione, difficoltà a ritrovare equilibrio”;
- competenze sociali: “le routine collettive permettono di imparare a negoziare, condividere, adattarsi. In un contesto esclusivamente familiare, alcuni bambini possono sviluppare interazioni più centrate sull’adulto, con minore iniziativa sociale o difficoltà ad accogliere anche piccole regole implicitamente condivise”.
- funzioni cognitive di base: “l’attenzione sostenuta, capacità di organizzare un compito, seguire sequenze e narrare l’esperienza sono competenze che si rafforzano nelle situazioni strutturate. Senza una cornice esterna, possono emergere maggiore dispersione, fatica nella pianificazione o un linguaggio narrativo meno articolato“.
“L’apprendimento libero funziona quando l’ambiente è vivo, ricco e affettivamente presente. Diventa fragile quando la libertà non è accompagnata da opportunità”, ha illustrato la psicoterapeuta.
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Guardando alla scelta dei genitori di vivere isolati e rifiutare la scuola, quali bisogni psicologici o convinzioni profonde possono averli portati a prendere una strada così radicale? Quando può diventare un limite per i figli?
In linea generale, scelte così radicali spesso raccontano “un bisogno di protezione: il mondo percepito come troppo veloce, invadente, non sintonizzato con i ritmi dei bambini. In questa prospettiva, l’isolamento non nasce da un rifiuto della scuola ma da un tentativo di arginare ciò che viene vissuto come minaccioso“.
“C’è poi un ideale di autenticità: il desiderio di offrire un’infanzia ‘pura’, dove la famiglia diventa il luogo privilegiato del crescere bene. A volte si tratta di una tensione valoriale, altre volte di una difesa più profonda contro la complessità delle relazioni esterne. Esiste anche, in alcuni casi, una difficoltà più ampia nel rapporto con l’esterno: fatica a fidarsi delle istituzioni, timore di delegare, difficoltà a sostenere la pluralità delle regole sociali”.
“Il limite emerge quando questa protezione diventa un confine troppo stretto. I bambini crescono anche attraverso ciò che è diverso da loro: l’incontro con altri adulti, la negoziazione con i pari, il misurarsi con regole non scelte. Senza questa dialettica, il processo di separazione interna – fondamentale per abitare il mondo – può rallentare”.
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Che effetti può avere, nel tempo, crescere in un ambiente dove tutto ruota intorno alla famiglia e non ci sono esperienze esterne, adulti diversi o attività strutturate? Quali aspetti della personalità dei bambini ne risentono di più?
“Un ambiente interamente centrato sulla famiglia può essere caldo, affettivo, regolativo. Ma l’assenza di un altrove riduce la possibilità di incontrare la differenza, e la differenza è uno dei motori della crescita. La prima area a risentirne è quella relazionale: tollerare la frustrazione, attendere il proprio turno, negoziare, adattarsi a un ritmo imposto dall’esterno. Sono competenze che difficilmente maturano in assenza di contesti plurimi”.
“Sul piano emotivo, un ambiente esclusivamente familiare può rendere la regolazione più fragile: il bambino impara a calmarsi solo all’interno di quel perimetro, legando troppo strettamente la sua stabilità emotiva alla presenza dei genitori. Dal punto di vista cognitivo – analizza la dottoressa Gentile – la varietà degli stimoli è ciò che alimenta flessibilità, creatività, pianificazione. Quando le esperienze sono troppo omogenee, alcune di queste funzioni possono svilupparsi più lentamente”.
“Ma l’aspetto più profondo riguarda la differenziazione del Sé: crescere significa imparare a essere qualcuno anche fuori dalla famiglia. Se l’orizzonte rimane troppo stretto, questo movimento può farsi più lento, più faticoso, meno spontaneo”.
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Nel valutare il benessere dei bambini, cosa farebbe pensare che questo stile di vita sta diventando problematico? Al contrario, quali segnali indicherebbero che, nonostante tutto, i bambini stanno comunque crescendo bene?
“Non esiste un solo segnale che definisce una situazione come problematica. È sempre una trama. In un contesto molto chiuso, i primi segnali di fatica riguardano la regolazione emotiva: irritabilità intensa, difficoltà a tollerare anche piccole frustrazioni, pianti o chiusure che non trovano vie di trasformazione“.
“Anche un ritiro marcato, una povertà nel gioco, un linguaggio che non si espande o comportamenti molto rigidi possono indicare che il bambino sta faticando a costruire ponti tra il mondo interno e quello esterno. Quando più di queste aree entrano in sofferenza contemporaneamente, è importante chiedere un parere professionale“.
La dottoressa conclude: “Accanto ai segnali di fragilità, però, emergono anche indicatori di buona crescita, anche in contesti non convenzionali.
- la capacità di calmarsi appoggiandosi all’adulto;
- la curiosità verso ciò che non conosce;
- il gioco simbolico che si amplia;
- un linguaggio che si arricchisce;
- la possibilità di entrare in relazione, anche con pochi adulti significativi, in modo flessibile e partecipe. Sono segnali che raccontano un movimento evolutivo vivo, nonostante un orizzonte relazionale ristretto”.
Ed è qui che emerge il bisogno di capire cosa significhi educare davvero: senza precipitare “nel baratro” della vulnerabilità, nel limbo tra libertà e fragilità, ma nel diritto di ogni bambino a un orizzonte che sia davvero suo.



