La firma prima della storia. La scrittrice prima della copertina innaffiata di cielo al centro della quale regna una bellissima conchiglia in primo piano.
Giornalista, conduttrice e scrittrice, Concita De Gregorio è sicuramente una delle voci più autorevoli del panorama culturale italiano.
Le sue interviste sono esenti da virgole note a tutti come curve di una sosta obbligata per mai accendere il dubbio di quanto è stato appena detto, di quanto è stato appena scritto.
In questi ultimi anni Concita De Gregorio persona e non personaggio ha comunicato la sua battaglia alla malattia con una matura bellezza che sparge speranza alle cellule fuori controllo.
Né prima né accanto, la malattia viene dopo di lei, perché la dichiarazione di guerra ha incontrato un’armatura scolpita nella consapevolezza di presenziare al giorno della vittoria.
Pubblicato il 13 maggio da Feltrinelli, “Di madre in figlia” raccoglie un tessuto narrativo di una Concita De Gregorio più giornalista che scrittrice impegnata in uno studio psicoemotivo di tre generazioni naufraghe di una piccola imbarcazione in avaria.
Tre storie di vita sommersa.
Marilù nonna, Angela madre, Adelaide figlia aderiscono al ruolo di parentela legittima senza contare un ulteriore passo indietro generazionale che include Agata e tanti altri capitoli dello stesso libro.
Donne da fare invidia alle sfumature magenta del tramonto quando si prepara alla replica dello spettacolo senza tempo.
Lontane o incollate a uno spazio condiviso, i chilometri di vene simbiotiche sanno come perdersi e raggiungersi nel giro di un’ora. Insieme sono un numero compatto che nessuna operazione algebrica saprebbe dividere, frutto indivisibile di un unico grembo.
“Il segreto di ogni cosa è la giusta misura. Lo stesso fiore, la stessa radice, la stessa foglia possono uccidere o guarire. Un farmaco è veleno o salvezza. Ogni cura lo è. Anche l’amore: può soffocare, condannare o liberare. La giusta misura. Il calibro. Le dosi. Quanto di quanto somministrare. Quando. È tutto qui”.
Accade un’estate.
Adelaide raggiunge la nonna turista alla ricerca del suo sé approdato su un’isola dove nemmeno l’eco di una sconosciuta natura potrebbe replicare una voce.
Qui dorme l’equilibrio come effetto consequenziale di libertà lontano dalle nevrosi tipiche della memoria.
Saranno tre mesi orfani di una madre in vita che affida la custodia della sua bimba adolescente a nonna Marilù, parente allergica di parole e abbracci.
Giovane, troppo giovane Adè, figlia dell’era digitale in connessione fino all’ultimo spicchio di mondo.
Sull’isola non c’è traccia di nuovo millennio, il dono della parola chiede udienza dopo lo spreco di ore in ostaggio di pixel.
Nonna e nipote come due naufraghi di epoche differenti aprono lo stesso libro che le riconosce a partire dalla prefazione in comune delle loro storie.
“Bisogna stare attenti, bisogna stare più attenti. Accorgersi. Guardare le persone anche quelle più vicine per come sono davvero, non per come ormai pensi che siano. Perché diventano un’abitudine le persone, e invece cambiano”.
I segreti di uno ieri più e meno recente tornano a galla dopo un lungo soggiorno tra le acque complici di una promessa.
In ogni libro non manca mai una pagina andata in stampa con una sbavatura d’inchiostro, ed è proprio quella singolare distrazione che prima o poi attirerà l’interesse di uno sguardo, quello attento ai segni particolari di un cuore in croce.
Il segreto non rivelato può contenere tracce di peccato che da tempo aspirano a ricevere una benedizione.
Troppe porte, tutte chiuse, hanno lasciato Angela sulla soglia della sua infermità relazionale, e intanto la ferita continua a sanguinare a causa del rapporto infelice con la figlia.
Anche Marilù accede ai primi posti della competizione emozionale dall’epilogo senza premio.
“Sono misteriose le ragioni per cui lasciamo andare le persone che amiamo e che ci amano. È come se in qualche luogo oscuro volessimo sentirci abbandonati, come se facessimo in modo di esserlo – provocare l’abbandono – per poi patirne tutto il dolore e nel dolore trovare la forza di non voltarsi indietro”.
Il tempo modella le relazioni con uno strumento tutto suo o prestato da madre natura per la buona riuscita del disegno noto solo alle parti: sole di fuoco e pallida luna destano gli animi assopiti sul cuscino dell’inerzia.
Sull’isola Adelaide impara a guardare da una diversa prospettiva tutte le assenze subite in attesa di una riconciliazione.
Le scelte di vita guidate da una bussola in disuso possono sfociare in errori che si protarranno nel tempo prima di ricevere l’insperata assoluzione.
Reciso per far sopravvivere due vite, il cordone ombelicale continua a scorrere “di madre in figlia” pago di una continuità alla luce del sole.
Marilù, Angela e Adelaide dovranno sotterrare gli impulsi di rabbia se intendono riappropriarsi dell’identità perduta nella colpa.
Nell’ascolto senza replica del curriculum esistenziale di più donne, spicca la Concita De Gregorio giornalista allenata alla divulgazione di storie dell’universo femminile.
Sono mogli, sono madri, sono figlie i cui nomi brillano in una didascalia di cronaca nera perché nessuno le ha mai portate sull’isola miracolosa.