Ogni anno la stessa fotografia: la scena si ripete identica, con la precisione amara di un rituale. L’alba del 16 agosto illumina spiagge devastate dal passaggio umano: bottiglie di vetro semisepolte nella sabbia, sacchetti di plastica, mozziconi abbandonati come piccoli monumenti alla maleducazione. E ancora, resti di falò spenti, plastica accartocciata, lattine, piatti e forchette usa e getta abbandonati come trofei della notte. C’è chi trova persino materassini strappati, resti di cibo, vestiti dimenticati.
È l’altro Ferragosto, quello che inizia quando la musica tace e i riflettori delle feste improvvisate si spengono. Uno spettacolo che non ha nulla di folkloristico o poetico, ma che somiglia più a un bollettino di guerra. Il ritratto di un Paese che festeggia senza pensare al domani, che consuma e poi dimentica, lasciando al vento e alle onde il compito di spazzare via i propri eccessi.
La festa che diventa inciviltà
Ferragosto nasce come momento di convivialità e leggerezza, un tempo sospeso tra caldo estivo e nostalgia di fine stagione, una tregua dal lavoro. Ma per molti diventa un’occasione per trasformare la libertà in anarchia, la gioia in abuso. Non è la festa il problema, bensì il modo in cui la viviamo: come se ogni spazio pubblico fosse un palcoscenico temporaneo da saccheggiare, senza pensare a ciò che resta dopo.
Le spiagge, luoghi simbolo della bellezza italiana, diventano teatri di un rito collettivo di inciviltà, dove chi lascia i rifiuti dietro di sé sembra quasi rivendicare un diritto alla trascuratezza, dove la libertà diventa pretesa di impunità.
Un Paese che si dimentica del domani
Quello che resta a terra non sono solo oggetti. È la fotografia di una mentalità: quella di chi considera lo spazio pubblico come una proprietà usa e getta, dimenticando che le spiagge sono beni comuni, fragili e preziosi.
L’Italia è il Paese che ama definirsi custode del mare, ma troppo spesso lo tradisce. Ci commuoviamo davanti alle campagne social con i cuccioli di tartaruga che corrono verso l’acqua, applaudiamo alle immagini dei volontari che ripuliscono le coste, ci indigniamo sui social per le foto di spiagge trasformate in discariche.
Eppure, quando arriva il momento di agire in prima persona, molti dimenticano il gesto più semplice: raccogliere il proprio sacchetto di spazzatura e portarlo via.
Il prezzo nascosto: l’ambiente che soffoca
Ogni bottiglia di plastica abbandonata non è un semplice dettaglio: è un frammento che finirà in mare, che verrà ingerito da un pesce, da un uccello marino, da una tartaruga. Ogni mozzicone sotterrato nella sabbia rilascia sostanze tossiche, inquinanti invisibili che contaminano i fondali. La spiaggia non è un contenitore neutro, ma un organismo vivo, parte di un ecosistema delicatissimo già messo in ginocchio dall’erosione costiera e dal cambiamento climatico.
Chi lascia un rifiuto non sporca solo il paesaggio: contribuisce a compromettere la salute del mare, e quindi la salute collettiva. È un atto che pesa sulle generazioni future, anche se compiuto con leggerezza.
Educazione o repressione?
Ogni anno i Comuni corrono ai ripari: pattuglie notturne, multe salate, divieti di falò, ordinanze che vietano il vetro in spiaggia. Tutto utile, ma insufficiente. Perché il problema non è la mancanza di regole, ma l’assenza di coscienza e consapevolezza.
In un Paese in cui si deve ricordare a milioni di cittadini che il mare non è una discarica, c’è un fallimento educativo prima ancora che istituzionale. Il gesto di raccogliere i propri rifiuti dovrebbe essere naturale quanto respirare. Non dovrebbe servire una minaccia di sanzione per compierlo. Eppure siamo ancora costretti a discutere di controlli e repressione.
Lo specchio dell’Italia
Il Ferragosto sporco non è solo un problema ambientale: è uno specchio sociale. È la cartolina di un’Italia che si vanta del suo patrimonio naturale e turistico, ma che non riesce a difenderlo. Un Paese che accoglie milioni di visitatori ogni estate, vendendo l’immagine delle sue coste come simbolo di identità e ricchezza, e che allo stesso tempo tollera comportamenti che ne compromettono il futuro.
Non possiamo amare il mare solo al tramonto, quando i colori sono perfetti per una foto. L’amore vero si misura la mattina dopo, quando si tratta di chinarsi a raccogliere un rifiuto.
Una responsabilità collettiva
Non basta indignarsi su Facebook, non bastano le campagne estive degli influencer, non bastano i sacchi neri portati via dai volontari delle associazioni ambientaliste. Serve che ciascuno, senza eccezioni, trasformi la cura dell’ambiente in abitudine. Non è un gesto eroico: è un atto minimo di civiltà. Portare via il proprio sacchetto, raccogliere il mozzicone, lasciare la spiaggia come la si è trovata.
E serve anche insegnarlo: ai bambini, nelle scuole, nelle famiglie. Perché la cultura del rispetto non nasce a colpi di ordinanze, ma si costruisce con l’esempio.
L’alternativa che scegliamo
Il Ferragosto lascia ogni anno due eredità possibili: quella delle foto bellissime di una notte d’estate, di sorrisi e ricordi da conservare, oppure quella delle spiagge trasformate in discariche. La scelta non è astratta: dipende da ciascuno di noi, dal singolo gesto, dalla singola responsabilità.
Se davvero vogliamo essere un Paese che si definisce “civile”, dobbiamo dimostrarlo non nei discorsi, ma nella sabbia che calpestiamo. Solo così Ferragosto potrà tornare a essere ciò che dovrebbe: una festa di vita, non un funerale dell’ambiente.
In copertina, spiaggia di Fondachello (16.08.25) – Fonte: Pagina Facebook “Catania dà spettacolo”