CALTANISSETTA – È durato diverse ore l’interrogatorio di Giuseppe Pignatone, ex procuratore di Roma ed ex presidente del Tribunale vaticano, ascoltato ieri dai magistrati della Procura di Caltanissetta. Pignatone è indagato da alcuni mesi per favoreggiamento alla mafia, nell’ambito dell’inchiesta sul presunto insabbiamento del dossier “mafia e appalti”.
L’interrogatorio di Pignatone
A condurre l’interrogatorio sono stati il procuratore capo Salvo De Luca e i sostituti Davide Spina e Claudia Pasciuti. L’indagine coinvolge anche l’ex pm di Palermo Gioacchino Natoli, già sentito la scorsa settimana, e il generale della Guardia di Finanza Stefano Screpanti. Insieme a loro, era stato inizialmente indagato anche l’ex procuratore di Palermo Pietro Giammanco, nel frattempo deceduto.
Secondo l’accusa, Pignatone avrebbe “istigato” Natoli e l’allora capitano della Guardia di Finanza a condurre una “indagine apparente” su presunte infiltrazioni mafiose nelle cave toscane. Il tutto limitando consapevolmente la durata delle intercettazioni e il numero dei soggetti da tenere sotto controllo. Inoltre, avrebbe spinto per la richiesta di archiviazione del fascicolo senza approfondire ulteriormente le indagini. Soprattutto quelle telefoniche.
Il movente, secondo i pm, sarebbe stato quello di favorire imprenditori ritenuti vicini a Cosa Nostra. Tra questi: Antonino Buscemi e Francesco Bonura, aiutandoli a eludere i controlli investigativi. Nel decreto di convocazione, i magistrati scrivono che Pignatone avrebbe persino sollecitato la distruzione delle bobine e dei brogliacci contenenti le intercettazioni per cancellare ogni traccia di rilievi emersi.
Tuttavia, dagli accertamenti è emerso che né le bobine né i brogliacci furono effettivamente distrutti. Anzi, sono stati ritrovati, e l’ordine di eliminazione sarebbe stato all’epoca una prassi procedurale in caso di ritenuta irrilevanza.
Il dossier mafia e appalti
Il procedimento ruota attorno a uno dei punti più oscuri della recente storia giudiziaria italiana: il dossier mafia-appalti. Su questo indagava anche il giudice Paolo Borsellino prima della strage di via D’Amelio. I magistrati nisseni stanno tentando di fare luce su un possibile collegamento tra quell’indagine mai portata a termine e il movente dell’attentato che costò la vita al magistrato il 19 luglio 1992. Secondo i familiari di Borsellino, fu proprio il rischio che il giudice approfondisse quel filone investigativo a decretare la sua condanna a morte da parte di Cosa Nostra.