Frutto dell’eredità biologica e del contributo ambientale, i processi evolutivi e formativi degli individui si modellano tra tradizione e mutamento, da ciò che si trasmette da una generazione all’altra, dai genitori ai figli.
Essi avvengono fra filogenesi e ontogenesi: un’eredità che pesa nella costruzione del sé e nelle risposte agli stimoli ambientali esterni. Del resto, se siamo strutturati e abbiamo determinate caratteristiche non ne siamo responsabili. O forse sì?
Sappiamo quanto sia importante la trasmissione genitoriale per la costruzione di una determinata identità, sul piano pedagogico numerose sono le ricerche in campo universitario. Ma come avvengono adesso, con il progresso delle nuove tecnologie, le nuove modalità di trascrizione, di processazione tra le menti umane, nei bambini appartenenti a una famiglia ma anche a una comunità o a un gruppo? Quali sono le possibili modalità di diffusione delle conoscenze, dei saperi, delle fantasie, dei comportamenti fondamentali per lo sviluppo e la formazione dei singoli individui?
Basta chiedere all’I.A., direte, e tutto in un clic si risolve.
Ma non è così e non chiamatela “Intelligenza artificiale”, per cortesia: di intelligenza non c’è nulla. È pur sempre un software, che ben funziona con tanti agi e benefici per tutti, ma l’intelligenza è un’altra cosa. In natura, possediamo l’intelligenza neotenica e, diversamente dai primati, gli esseri umani continuano ad apprendere per tutto il ciclo della vita.
In ogni età della vita, essa ci permette di rispondere agli stimoli ambientali in modo creativo e adattandoci al contesto lo modifichiamo. Dunque, non solo apprendiamo in modo diverso e in contesti plurimi, ma adattiamo le nostre rielaborazioni continuamente e trasformiamo i nostri processi.
La plasticità encefalica e mentale è un processo di mantenimento dei tratti fetali e infantili nella vita adulta: non esiste dono più grande di rimanere in una condizione di sviluppo grazie alla natura neotenica. Nelle comunità educanti, l’azione pedagogica e sociale recupera un valore di presenza e di agito.
L’etimologia di paideia (in greco antico παιδεία), depositata dagli antichi saggi greci, ha una forte pregnanza nel presente: l’educatore, l’insegnante, così come il genitore agisce in un presente di correzione e di indicazione all’azione, facendo leva sulla memoria del passato, indirizzando il bambino verso la consapevolezza dell’agire eunomico (dal greco èu, buono, e nòmos, legge) in un’ottica futura.
A un’educazione anomica, tipica della globalizzazione, foriera di Durkheim, le neuroscienze rispondono con possibili strategie di narrazione. La narrazione, come strumento cognitivo e formale del discorso, è fondata su una logica polisemica, negoziabile e indeterminata e costituisce per il bambino soprattutto una funzione ludica e pragmatica.
Un dispositivo intenzionale, ibrido di interpretazioni e di caratteri generali di funzione conativa: essa agisce sia al contesto socio-culturale d’appartenenza, tramite codici ristretti o larghi, sia sul piano della rielaborazione simbolica del reale. Se nell’infanzia lo spazio è sincrono a un mondo meraviglioso e animistico, che si crea e si ricrea con il gioco e le attività ludiche, il tempo è immaginario e illusorio.
Nella prima infanzia, il tempo diventa un diritto ai propri ritmi di apprendimento e alle proprie possibilità attentive, di sperimentazione e di gioco. L’infanzia è un prendersi del tempo per sé, un mondo in cui l’infante, come colui che non parla, si situa in una condizione di ricevere doni, è sempre un essere preso “in cura” verso una relazione con l’altro e con la realtà.
Ma se il luogo depositario dell’autentica “cura” dell’infanzia era fino al 1920 circa di selezione femminile, l’evoluzione della consapevolezza di vere rivoluzioni sociali e familiari del ruolo della donna e dell’uomo, la loro consapevolezza dei legami intessuti con sé, con gli altri, con il lavoro, con il proprio ambiente, con i propri vissuti, con il proprio “villaggio globale” e con i propri desideri, ha dato vita a una serie di connotazioni pedagogiche nuove nel sistema culturale in cui siamo iscritti.
Il pericolo, allora, non è tanto nella dissoluzione dell’infanzia o nella scomparsa di essa, quanto in quella riappropriazione dei ruoli differenti della responsabilità della funzione di matrice ecologica nei soggetti spesso indifesi e posti in una naturale condizione a cavallo fra l’essere fuori e dentro le regole e la legge.
Infine, la separatezza delle azioni dell’infanzia, la costruzione di azioni in un tempo altro rispetto a quello degli adulti, la dimensione spazio-temporale dell’ordine simbolico dominante, l’estraneità al tempo inarrestabile di prodotti culturalmente costruiti dai simboli della glocalizzazione, la sperimentazione di linguaggi musicali e sonori, verbali e simbolici, iconici e rappresentativi, animistici e metaforici non ancora consapevoli di stereotipi tipici di classificazione e di astrazione, rendono l’infanzia un’età comune a tutti, un telos (τέλος, che significa: fine, scopo o obiettivo) unificante.
Il vero obiettivo è di averne coscienza in età adulta, di preservarla e custodirla, per diffondere la cultura della vita e di individuare uno stretto legame tra sistemi educativi plurimi e ideologie di potere delle classi dominanti.
Articolo redatto in collaborazione con la prof.ssa Carmen Valentino