Dismorfia corporea, quando il corpo diventa un’ossessione

Dismorfia corporea, quando il corpo diventa un’ossessione

Guardarsi allo specchio e non piacersi capita a tutti. È una sensazione che può comparire a fasi, in certi periodi della vita, e spesso passa. Ma per alcune persone non si tratta di un semplice momento di insicurezza: il corpo diventa un’ossessione, ogni dettaglio viene ingigantito, percepito come difetto, anche se agli occhi degli altri è inesistente o trascurabile. È in questi casi che può manifestarsi la dismorfia corporea, un disturbo psicologico ancora poco conosciuto, ma sempre più diffuso, soprattutto tra i giovani.

Secondo il Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali (DSM-5), la dismorfia corporea — o Disturbo da Dismorfismo Corporeo (BDD) — colpisce tra l’1,7% e il 2,9% della popolazione generale, ma tra gli adolescenti e i giovani adulti le percentuali risultano più alte. In Italia, anche se mancano ancora stime ufficiali su larga scala, gli esperti segnalano un incremento di casi legati all’utilizzo massiccio dei social media e alla pressione estetica esercitata da modelli irrealistici.

Instagram, TikTok, filtri, influencer: siamo continuamente esposti a standard che premiano la perfezione. Il risultato? Un confronto costante, spesso tossico, che può minare l’autostima e portare allo sviluppo di veri e propri disagi psicologici. Il corpo diventa un nemico, qualcosa da nascondere, correggere, modificare. Ma la soluzione non è nel cambiamento estetico: è nell’ascolto, nella comprensione e, quando necessario, nel chiedere aiuto.

La dismorfia corporea non è solo una questione estetica. È un disturbo profondo, che può condizionare la vita sociale di chi ne soffre. Eppure, spesso viene sottovalutato, banalizzato o confuso con la vanità.

Per fare chiarezza su cosa sia davvero questo disturbo, su come si riconosce e si affronta, è intervenuta ai microfoni di NewSicilia la Dott.ssa Valentina La Rosa: psicologa, psicoterapeuta, assegnista di ricerca e docente a contratto di Psicologia dello Sviluppo presso l’Università di Catania.

Dismorfia, quando lo specchio è il nemico: l’intervista

  • In parole semplici, cos’è il disturbo da dismorfismo corporeo e come si distingue da una normale insoddisfazione verso il proprio aspetto?

“Il disturbo da dismorfismo corporeo è una condizione psicologica in cui una persona è eccessivamente preoccupata per uno o più difetti percepiti nel proprio aspetto fisico, difetti che agli altri appaiono minimi o inesistenti. La differenza con una normale insoddisfazione sta nell’intensità e nelle conseguenze: infatti, nel disturbo da dismorfismo corporeo, i pensieri relativi al proprio aspetto fisico sono intrusivi e persistenti, causano un disagio emotivo significativo e interferiscono con la vita quotidiana, le relazioni e le attività lavorative o scolastiche. Non si tratta quindi solo di una questione legata al non piacersi ma di un vero e proprio disturbo psichico che può condurre a problematiche comportamentali, evitamento sociale o anche al ricorso compulsivo a interventi estetici”.

Spesso chi soffre di dismorfia viene scambiato per “vanitoso” o “ossessionato dall’aspetto”. Quanto è sbagliata questa percezione?

“Si tratta di una percezione profondamente sbagliata e, purtroppo, ancora molto diffusa nell’opinione comune. Chi soffre di dismorfismo non è “vanitoso” ma è portatore di un autentico dolore psichico. La preoccupazione per il proprio aspetto nasce in questi casi da un senso di inadeguatezza profondo, che spesso ha radici in esperienze di rifiuto, bullismo o traumi relazionali. Etichettare queste persone come superficiali non solo è ingiusto ma può anche peggiorare il loro stato d’animo, alimentando stigma sociale e isolamento”.

Quanto incidono i social media e il confronto costante con immagini “perfette” sullo sviluppo del disturbo?

“I social media non sono l’unica causa ma giocano sicuramente un ruolo significativo, soprattutto nei soggetti più vulnerabili. Le piattaforme digitali sono ambienti in cui l’aspetto fisico è spesso esibito, modificato e valutato pubblicamente. Il continuo confronto con corpi idealizzati, filtrati e spesso irrealistici può contribuire ad amplificare insicurezze preesistenti e a ridurre l’autostima. Questa dinamica è frequente soprattutto durante l’adolescenza, una fase in cui il corpo cambia rapidamente e l’identità è ancora in costruzione. Alcuni studi recenti evidenziano una correlazione tra l’uso intensivo dei social e l’aumento di sintomi dismorfofobici, soprattutto nelle ragazze, ma sempre più anche nei ragazzi e nelle persone non binarie”.

In un mondo così orientato all’apparenza, si può davvero educare i giovani a un rapporto sano con il proprio corpo? Se sì, come?

“Sì, è possibile, ma richiede un impegno condiviso da parte della scuola, delle famiglie e dei mass media. Bisogna promuovere una cultura del corpo che non sia centrata solo sull’estetica ma che riconosca il valore del corpo come strumento di esperienza, relazione ed espressione della propria identità. Questo significa educare all’autenticità, sviluppare il pensiero critico verso i modelli imposti a livello sociale e culturale, e promuovere la valorizzazione della diversità corporea. I percorsi di educazione emotiva nelle scuole, il dialogo aperto in famiglia e la rappresentazione di corpi reali, inclusivi e non stereotipati nei media possono fare la differenza. Un’educazione che passa anche dalle parole che usiamo per parlare di noi stessi e degli altri”.

Cosa succede se questo disturbo non viene affrontato? Quali possono essere le conseguenze psicologiche e relazionali?

“Se non adeguatamente trattato, questo disturbo può avere conseguenze anche molto gravi. A livello psicologico, può evolvere in depressione, ansia, disturbi alimentari, ideazione suicidaria o comportamenti autolesivi”.

“A livello relazionale, spesso determina progressivo isolamento sociale, difficoltà nel costruire relazioni affettive e un impatto significativo sulla qualità della vita. Chi ne soffre può arrivare a evitare specchi, foto, ambienti sociali o, al contrario, cercare ossessivamente rassicurazioni o interventi estetici, senza però trovare un vero sollievo. Si tratta di una sofferenza invisibile ma profonda”.

Infine, quali sono i percorsi terapeutici più efficaci? E quanto è importante rivolgersi a un professionista?

“I percorsi terapeutici più efficaci sono quelli che aiutano la persona a comprendere l’origine del proprio malessere, a riconoscere i pensieri distorti legati all’immagine corporea e a sviluppare un rapporto più sano e compassionevole con se stessa. Il lavoro psicologico permette anche di esplorare eventuali esperienze pregresse di rifiuto, vergogna o svalutazione, che spesso stanno alla base del disturbo. In alcuni casi, può essere utile un approccio multidisciplinare che coinvolga diverse figure professionali. È fondamentale in questi casi rivolgersi tempestivamente a uno psicologo o a uno psichiatra: solo un professionista può offrire uno spazio sicuro, privo di giudizi, e gli strumenti adeguati per affrontare una sofferenza che, se trascurata, rischia di diventare cronica e invalidante. Chiedere aiuto è un atto di coraggio, non di debolezza“.